In un gioco ironico sin dal titolo, Riccardo De Marchi costruisce per una delle sale al terzo livello del MACRO, una mostra personale che coniuga citazione, scrittura, segno e spazio.
Da sempre interessato al racconto come traccia di contenuti, figurazione e metodo per penetrare la realtà, Riccardo De Marchi espone al MACRO una serie di lavori, tra cui 72 copertine di dischi e 4 opere a parete, e interviene direttamente sulla superficie del museo perforando la parete di fondo della sala, che diventa, al pari delle opere in alluminio, acciaio e plexiglass, una possibile nuova dimensione per la sua scrittura “marziana”.
Il linguaggio di De Marchi, apparentemente sintetico ma ricco di significati e letture, è caratterizzato dalla presenza di fori e sbalzi che colpiscono i materiali “alle spalle”, creando delle modalità che alterano lo spazio in maniera minima. Intendendo il foro come metodo per penetrare la realtà e come possibilità di pensiero, De Marchi ritiene l’atto di perforare assolutamente privo di connotazione. “Certo – dice l’artista – imprimo tracce, che in qualche modo sono segno della mia esistenza, della mia presenza… un ‘attraversamento’ (delle cose) non solo metaforico… ma fisico. Ma quello che mi preme è l’idea che queste ‘iscrizioni’, questo alfabeto possibile, rivelino sempre una presenza.” Questa scrittura - un racconto, un Braille, una traccia musicale - ha un rapporto indispensabile con i materiali, che nella sottrazione del foro, si rivelano con le proprie caratteristiche.
L’ingresso in sala è segnato da una grande installazione di 72 copertine di dischi – simbolo di un percorso che si sviluppa dal 1994 a oggi, e che, nato come memoria personale, è successivamente diventato parte del più ampio universo della ricerca dell’artista. Questa installazione, infatti, rappresenta per De Marchi la traccia di esperienze vissute in luoghi e situazioni della sua vita, e diviene quindi una sorta di biografia sonora e visiva.
L’accesso a una soggettività forte e intensa è presente anche nel grande intervento che De Marchi ha creato per la parete di fondo della sala, la cui fitta trama viene riflessa dall’opera specchiante che le è di fronte, che la moltiplica e che ne rappresenta una sorta di alter ego. Il foro diviene quindi momento di una dialettica - più che di una metafisica - le cui tracce rappresentano una concreta memoria dell’umano, senza aprirsi all’altrove di Fontana.
Divertendosi a “mappare liberamente varie eredità – come nella Lettera a Jackson Pollock – De Marchi elabora quindi un linguaggio “altro” da lanciare nel tempo: note e ritmo di una nuova incisione, spazi di luci e ombre, presenza e gioco del niente sulle superfici.