Jonathan Monk. All the possible combinations of twelve lights lighting (one at a time)
a cura di Costantino D’Orazio
Jonathan Monk (Leicester, UK, 1969) ha parcheggiato la sua Vespa PK all’interno del museo, con le luci accese. Il faro di testa, quello di coda, le frecce, le luci dei freni e quelle sul cruscotto si accendono e si spengono in un ordine apparentemente casuale.
La sequenza in realtà è stata organizzata dall’artista secondo un ritmo preciso, fino ad ottenere 479.001.600 possibili combinazioni: un numero che si potrebbe esaurire in oltre quindici anni di attività delle luci.
In occasione della mostra, il MACRO presenta il libro dedicato all’opera con circa duecento immagini in bianco/nero della Vespa, corredate da un piccolo riquadro bianco nell’angolo in alto a sinistra di ogni pagina. Queste immagini sono separate da dodici fotografie a colori delle varie luci sullo scooter. Grazie ad un foglio di adesivi colorati, ogni lettore può “creare la propria unica combinazione di luci (una per volta nel riquadro bianco)“.
Con l’installazione di Monk prende avvio la rassegna “Just one”, nella quale il curatore Costantino D’Orazio invita artisti di fama internazionale ad esporre una sola opera particolarmente significativa, negli spazi del museo di solito non utilizzati per le mostre.
Gli amici di Toti Scialoja e Gabriella Drudi
Promossa da: Assessorato alla Cultura e al Turismo di Roma; Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali; Accademia di Belle Arti di Roma; Fondazione Toti Scialoja
Organizzazione
Zètema Progetto Cultura Comitato promotore Claudio Parisi Presicce, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali Tiziana D’Acchille, Accademia di Belle Arti di RomaAntonio Tarasco, Fondazione Toti Scialoja Comitato ScientificoClaudio Crescentini (Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali), Tiziana D’Acchille (Accademia di Belle Arti di Roma), Federica Pirani (Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali), Gabriele Simongini (Accademia di Belle Arti di Roma), Enrico Stassi (Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali)
MACRO Via Nizza
Immagine: W. de Kooning, Senza titolo (Ritratto di Toti Scialoja), 1960
Nell’ambito della mostra 100 Scialoja. Azione e Pensiero vengono presentate una serie di opere della collezione privata di Toti Scialoja e di sua moglie Gabriella Drudi, sempre concesse dalla Fondazione Toti Scialoja di Roma nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita dell’artista.
Si tratta di oltre 70 opere, fra quadri, sculture, disegni e grafiche, che bene documentano sette decenni di amicizie, rapporti, ricerche in comune maturate in diversi contesti artistici e culturali, lungo un viaggio che da Roma giunge a New York e ritorno.
La collezione è divisa in due sezioni tematiche, con andamento cronologico, partendo da Gli amici italiani, con opere di Afro, Burri, Colla, Corpora, de Pisis, Dorazio, Fontana, Leoncillo, Maccari, Mafai, Mauri, Melotti, Mirko, Morandi, Novelli, Perilli, Rotella, Savinio, Strazza, oltre ai “4 fuori strada”, di cui hanno fatto parte Ciarrocchi, Sadun, Stradone e lo stesso Scialoja, ed altri, con opere tutte da scoprire. Si prosegue con Gli amici dal mondo, con opere di Calder, de Kooning, Gorky, Guston, Marca-Relli, Motherwell, Pepper, Twombly, Rukhin, ecc.
Naturalmente questa raccolta, con cui si ribadisce la scelta metodologica e scientifica di presentare in mostra esclusivamente opere provenienti dalla Fondazione Scialoja e quindi di proprietà dello stesso Toti, non esaurisce il panorama degli artisti con cui furono stabiliti stretti rapporti, mancando ad esempio lavori di Renato Birolli e Corrado Cagli per il contesto italiano e di Mark Rothko per quello americano.
Complessivamente si viene a creare un dialogo sottile e illuminante fra le opere dello stesso Scialoja e quelle dei suoi amici artisti, con una rete di rapporti che offre anche la possibilità di capire meglio tanti snodi, scelte linguistiche e predilezioni dell’artista romano. Partendo dalla seconda metà degli anni Trenta alla fine del suo percorso – anni Novanta – senza dimenticare un cenno sommario alla sua feconda attività di docente dell’Accademia di Belle Arti di Roma, con le opere degli allievi storici, della “prima generazione” (cronologicamente la seconda metà anni Cinquanta), con Battaglia, Fioroni e Gardini le cui le opere provengono sempre dalla collezione Scialoja.
Tutti i lavori presentati nelle due predette sezioni, sono messi a confronto/riscontro con alcune opere sperimentali, per così dire, dello stesso Scialoja e con i suoi libri d’artista – Tra le tecniche di Scialoja: indagini e riscontri – in un vero e proprio confronto sulle tecniche della seconda metà del Novecento.
Co-protagonista assoluta della mostra diventa quindi la tecnica dell’artista, con quel suo particolare piacere per l’utilizzo di materiali, a volte, inconsueti e spesso legati proprio alle sperimentazioni materiche dei suoi amici. In questo modo si viene a realizzare un’osmosi diretta fra opere, tecniche e artisti in mostra, che porta il visitatore ad un rapporto visuale privilegiato, da Scialoja ai suoi amici, lungo circa cinquanta anni di arte nazionale e internazionale riassunto in mostra dalle parole dello stesso artista.
Infatti, grazie alla collaborazione con RAI Direzione Teche verrà proiettata in mostra una trasmissione della RAI interamente dedicata all’artista, dal titolo Autoritratto d’arte contemporanea: Toti Scialoja (1993), di Guidarello Pontani (durata 8’,42’’), dove l’artista spiega appunto la sua tecnica, il suo pensiero, i suoi incontri americani.
Marinella Senatore Jammin’ Drama Project
a cura di Costantino D’Orazio
MACRO Via Nizza
In collaborazione con l’Associazione Musei d’Arte Contemporanea, viene presentato il video della giovane artista italiana già presente in numerose collezioni pubbliche e inserita in molte manifestazioni internazionali, come la Biennale di Venezia.
Liberamente ispirato al lavoro di Tim Rollins condotto negli anni 80 nel South Bronx, dove coi suoi studenti aveva sviluppato una strategia di collaborazione denominata jammin’, innescando processi di coinvolgimento dei membri a partire dalla propria storia, Jammin’ Drama Project è un progetto partecipativo che ha coinvolto oltre 150 cittadini della comunità ispanica e afro-americana di Harlem, NYC.
“Jammin’ Drama Project” si delinea come flusso di sequenze, brevi incipit di condizioni emotive, drammi quotidiani e disgregazioni sociali. I partecipanti hanno composto una partitura dove due attori professionisti hanno saputo muoversi e improvvisare (jammin’), creando aspettative sempre nuove e lasciando spazio a interpretazioni mutevoli del film.
La struttura in capitoli descrive rispettivamente le fasi finali del matrimonio di una coppia di mezza età, la storia di una sorella e un fratello che si trovano a prendersi cura l’uno dell’altro, una coppia di amanti e le memorie di un rapporto madre-figlia, attraverso ciclici giochi di parole, tensioni, cliché, suggestioni e combinazioni varie. Le diverse storie, ciascuna articolata ed osservata da distinti punti di vista risultano come un collage di luoghi, figure e paesaggi, collegati alla storia e al testo.
Omaggio a Carla Accardi
A poco più di un anno dalla sua scomparsa, il MACRO rende omaggio a Carla Accardi. Siciliana di origine, romana d’adozione, la Accardi ha animato la scena artistica romana e internazionale per oltre cinquant’anni. L’iniziativa si configura come un itinerario sulla ricerca dell’artista attraverso opere su carta che documentano il suo lavoro dagli anni ’40 al XXI secolo. L’iniziativa prende spunto dalle opere dell’artista presenti nella collezione del MACRO e si arricchisce di alcune preziose lettere, documenti e fotografie oltre a opere su carta, in parte inedite.
In collaborazione con l’Archivio Accardi Sanfilippo
Josh Smith
a cura di Ludovico Pratesi
MACRO Testaccio
Prima mostra personale in un museo italiano dell’artista americano Josh Smith, nato nel Tennessee nel 1976 ma residente a New York, la cui ricerca si fonda su tecniche come la pittura su carta, il collage, l’incisione e l’edizione di libri d’artista, che Smith considera a tutti gli effetti delle opere in sé.
La mostra è concepita come un’antica quadreria, che riunisce un centinaio di dipinti dello stesso formato, realizzati per l’occasione, che ricostruiscono la multiforme personalità dell’artista, attivo dal 2003. Una sorta di omaggio all’opulenza e al fasto del barocco romano, che permette al pubblico di approfondire i diversi aspetti della pittura di Josh Smith.
Partendo da una riflessione legata al proprio nome, l’artista produce una serie di opere, utilizzando tecniche diverse, dall’olio all’acrilico, dall’acquarello all’incisione, costruendo dei veri e propri assemblaggi di forme e colori, spesso ispirate ad immagini o a tematiche figurative.
E’ una pittura che unisce l’energia cromatica e gestuale dei maestri dell’arte statunitense, da De Kooning a Guston fino a Schnabel o Basquiat, con uno studio profondo della storia dell’arte europea, intrisa di riferimenti a Paul Cezanne o Kurt Schwitters. Attento studioso di grafica e di editoria, ha dedicato una importante parte della sua produzione alla creazione di libri d’artista.
La mostra documenta le diverse fasi del suo lavoro, che indaga il rapporto tra autorialità e serialità attraverso le serie dei Name Paintings – speculazioni formali attorno ai caratteri J,O,S,H,S,M,I,T e H -, gli Abstract paitings , i Collages e i Palette Paintings, eseguiti con un procedimento legato alla pulizia dei pennelli. Opere realizzate negli ultimi sei anni , dal 2009 al 2015 (di cui un importante nucleo inedito) che risentono di una tradizione astratta che ha origine negli anni Ottanta , in linea con artisti come Terry Winters, Albert Oehlen e Christopher Wool, tra i primi a spingere il gesto pittorico verso una produzione seriale. Inoltre gli Stage paintings , con la loro struttura minimalista si accompagnano ad un centinaio di sgabelli da bar, suddivisi tra i due padiglioni, che permettono ai visitatori di sedersi per cogliere con più attenzione i dettagli dell’arte di Josh Smith.
Note biografiche
Nato nel 1976 a Knoxville nel Tennessee, Josh Smith ha avuto molte mostre personali negli Stati Uniti e in Europa, come The American Dream alla Brant Foundation di Greenwich, CT in 2011, Who Am I at De Hallen di Haarlem nel 2009 e Hidden Darts al Museum Moderner Kunst di Vienna nel 2008. Ha partecipato a molte collettive come The Painting Factory: Abstraction after Warhol al Museum of Contemporary Art di Los Angeles, Le Printemps de Septembre a Tolosa, The Generational: Younger Than Jesus al New Museum di New York, Uncertain States of America alla Serpentine Gallery di Londra, alla Lyon Biennial nel 2007. Nel 2011 ha partecipato alla Biennale di Venezia ILLUMInazioni, invitato da Bice Curiger. Ha esposto alla Saatchi Gallery di Londra, alla Luhring Augustine di New York, da Eva Presenhuber a Zurigo e da Massimo De Carlo a Milano. Hanno scritto sul suo lavoro curatori internazionali come Massimiliano Gioni, Francesco Bonami, Hans Ulrich Obrist, Bice Curiger, Roberta Smith.
SIMON MA “Beyond Art with Love”
Mostra dell’artista cinese Simon Ma, uno dei maggiori interpreti della nuova arte cinese, il quale, per la prima volta a Roma, propone la sua personale interpretazione del tema dell’amore con una serie di installazioni site specific.
Per Simon Ma il tema dell’amore è da intendere nell’accezione dell’ “amore incondizionato” che parte dall’opera ed arriva al pubblico tramite gli elementi primari dell’acqua, aria, terra e di quello spirituale della benevolenza.
Francesco Francaviglia – MEDITERRANEAN DARKNESS. Ritratti dalle stragi
La mostra, in linea con la cronaca contemporanea, vuole essere un momento di riflessione sulle terribili tragedie che hanno visto negli ultimi decenni trasformarsi in teatro di stragi i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Il progetto si sviluppa a partire dai ritratti de “Le Donne del digiuno”, narrazione di uno degli eventi più importanti della reazione della società civile alle stragi mafiose di Capaci e Via D’Amelio, e si evolve con i ritratti degli immigrati che attraverso il deserto e il Mediterraneo approdano sulle coste italiane in cerca di salvezza.
Koki Tanaka. A Vulnerable Narrator, Deferred Rhythms Deutsche Bank’s “Artist of the Year” 2015
a cura di Britta Faerber, Chief Curator di Deutsche Bank
MACRO Via Nizza
La prima più ampia personale dell’artista giapponese Koki Tanaka, autore di installazioni e performance che prevedono il coinvolgimento del pubblico.
L’artista – nato in Giappone nel 1975 e basato a Los Angeles dove vive e lavora – ha ricevuto il prestigioso riconoscimento Deutsche Bank’s “Artist of the Year” per l’approccio innovativo e la capacità di connettere aspetti estetici e tematiche sociali.
L’esposizione, inaugurata presso la Deutsche Bank KunstHalle di Berlino a maggio, offre una panoramica completa del lavoro di Koki Tanaka: l’artista vede il suo lavoro come un approccio sostenibile ai movimenti artistici che si riferiscono alle condizioni mutevoli della nostra realtà sociale ed economica. Con installazioni video, fotografie e disegni, la mostra collega progetti, documenti e idee di quasi un decennio della sua attività artistica: dagli esperimenti con prodotti e materiali di uso quotidiano fino alle ultime performance.
Inés Fontenla – Albedo
Project Room #1
Autrice di diverse installazioni multimediali che hanno per oggetto alcuni temi cruciali del nostro tempo, quali le grandi migrazioni umane e i conflitti sociali e ambientali, Inés Fontenla propone l’installazione “Albedo”, un’opera che invita il pubblico a riflettere sul tema dell’acqua, bene collettivo fondamentale e patrimonio comune che è necessario preservare.
Con l’installazione “Albedo”, l’artista concentra la sua attenzione sull’Antartide, unanimemente considerata il serbatoio di acqua dolce del pianeta terra e il punto di partenza per un analisi sul problema della scarsità di risorse idriche per il futuro.
Con il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia.
Beatrice Pediconi, Untitled, 2009
Project Room #2
Video-installazione di 8 minuti, colore, a ciclo continuo, senza suono. L’opera video qui esposta è parte del progetto di mostra L’altra metà dell’arte. Un percorso al femminile nella collezione MACRO, visibile presso le Sale Collezione del Museo.
Beatrice Pediconi nasce a Roma, vive e lavora tra Roma e New York.
Artisti in Residenza 2015 – Studi Aperti. Emanuela Ascari / Gli Impresari
Studio #1 e Studio #2
Gli artisti vincitori del bando “Programma Artisti in Residenza” 2015, Emanuela Ascari e il collettivo Gli Impresari (Edoardo Aruta, Marco Di Giuseppe, Rosario Sorbello), aprono al pubblico gli studi dove lavorano.
Emanuela Ascari, nata a Sassuolo (MO) nel 1977, presenta al MACRO Ciò che è vivo – project, un lavoro che si rivolge all’agricoltura organica quale ambito nel quale rintracciare forme di equilibrio tra l’uomo e l’ambiente, e dal quale elaborare un pensiero eco-logico e bio-centrico necessario ad un ripensamento dei valori e dei modelli economici e sociali. La Ascari presenterà presso il MACRO gli sviluppi di una azione paesaggistica “Ciò che è vivo – culture tour”, svoltasi tra aprile e maggio 2015 portando in giro un’installazione itinerante composta da lettere di legno che formano la frase “Ciò che è vivo ha bisogno di ciò che è vivo”, in un viaggio in Italia tra agricoltori organici, biologici e biodinamici, sui cui terreni è stata posizionata la scritta. L’azione è stata un pretesto per l’incontro e per stringere relazioni, per condividere un pensiero con persone che hanno scelto di dedicarsi alla terra quale atto culturale e politico di resistenza nei confronti di un sistema che privilegia altre logiche, conducendo e producendo un’altra economia, e un altro immaginario.
Gli Impresari (Edoardo Aruta, Marco Di Giuseppe, Rosario Sorbello) è un collettivo artistico impegnato in un lavoro di ricerca sulle forme del teatro barocco, sulla scenotecnica e in particolare sul complesso mondo delle macchine teatrali, dispositivi grazie ai quali era possibile ottenere rapidi cambi di scena, improvvise apparizioni o simulazioni di effetti naturali, come il suono del vento, il boato del tuono o lo scorrere delle nuvole. Il collettivo propone al MACRO la performance La commedia delle macchine, ispirata all’omonima commedia scritta dall’artista Gian Lorenzo Bernini nel 1644 e mai messa in scena prima.
A partire dal ruolo dei dispositivi scenici intesi come veri e propri strumenti di meraviglia, la proposta vuole ragionare sulle implicazioni politiche ed estetiche che ruotano intorno all’utilizzo di questi antichi strumenti di propaganda, considerando il loro valore analogico come virtù essenziale per sviluppare una riflessione sul concetto di tecnica nella società contemporanea. Il progetto mira a trasformare il museo in un laboratorio dove mostrare il meccanismo stesso di produzione di uno “spettacolo”. Nei mesi di residenza, lo studio diverrà dunque una sala prove dove ideare la performance, progettare e realizzare le macchine e i costumi di scena.
DIGITALIFE: LUMINARIA
Sesta edizione della rassegna dedicata alle connessioni fra le nuove tecnologie e i linguaggi artistici contemporanei ideata e prodotta dalla Fondazione Romaeuropa come sezione hi-tech del Romaeuropa Festival, quest’anno al suo trentesimo anniversario.
Undici opere dedicate alla luce abiteranno gli spazi de La Pelanda che si conferma anche quest’anno spazio ideale per un vero e proprio festival nel festival, affiancando al percorso espositivo un serrato calendario di eventi e performance di musica, danza, elettronica e video.
Naturale o artificiale, riflessa o assorbita, la luce interroga differenti ambiti disciplinari, dalla fisica quantistica alla religione e fino all’arte visiva. Nell’Anno Internazionale della Luce indetto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con Digitalife–parte della programmazione del Light 2015– Romaeuropa esplora l’utilizzo della luce attraverso le arti digitali. Sperimentali, ludiche, interattive, capaci di produrre immagini e paesaggi sorprendenti, le 11 opere in mostra trasformano lo spazio espositivo in una vera e propria scatola nera plasmata e disegnata dalla materia luminosa.
In questo spazio tutto dedicato alle percezioni si collocano le 100 lastre di plexiglas attraversate da un fascio luminoso dell’opera di Nicolas Bernier, FREQUENCIES (LIGHT QUANTA), che grazie alla sua ritmica, sonora e luminosa, si fa lente di ingrandimento sulle particelle infinitesimali dei Quanti, e la teca di vetro sospesa a mezz’aria, riempita di fumo e attraversata da raggi luminosi, costruita da Martin Massier per la sua Boîte Noire: un tentativo di visualizzazione tridimensionale del suono attraverso l’interazione di luce ed elementi naturali primari.
Ci conducono in Giappone le proiezioni luminose di Joanie Lemarcier che in Fuji (不死) costruisce un ambiente immersivo multisensoriale dove prende vita una visione poetica ispirata a una delle fiabe più rilevanti della cultura nipponica (Storia di un tagliabambù o Kaguya Hime no monagatari).
É un paesaggio astratto quello creato da Pietro Pirelli (già a Digitalife 2014 con Arpa di Luce) per Idrofoni o Lampade Sensibili, fonti luminose che interagiscono con la limpidezza dell’acqua reagendo alla parola, al canto, al suono di uno strumento, oppure all’ambiente che le circonda, invece semplicemente respirando lo spettatore potrà alterare il processo di illuminazione delle tre gabbie in cui è invitato a entrare nell’opera di Alexandra Dementieva BREATHLESS.
Ancora il soffio dei passanti sul microfono del proprio cellulare genererà una “tormenta” in grado di modificare i lineamenti dei protagonisti dell’opera Tourmente di Jean Dubois, mentre Maxime Damecour nella sua opera TemporAIR simula sorprendentemente l’effetto visivo della tecnica di montaggio cinematografico chiamata“jump-cut”, qui generata da luci stroboscopiche e movimenti programmati.
Dal cinema espanso, ricostruito nello spazio attraverso la luce, all’arte video con la rassegna di video arte curata da Le Fresnoy, e il film The Lack di Masbedo, che racconta la condizione della donna nella contemporaneità.
Se Samuel St-Aubin con la serie di sculture cinetiche autonome De choses et d’autres riflette sull’imprevedibilità della natura, luce e robot diventano potentissimo connubio in Inferno, l’affascinante e oscura istallazione/performance robotica di Bill Vorn e Louis-Philippe Demers, coreografia di infernali esoscheletri che tra suoni e luci infliggono i loro movimenti agli spettatori invitati a indossarli. Sempre Demers è il creatore della performance The Blind Robot: due bracci meccanici, compresi di mani articolate, toccano delicatamente il volto del visitatore per restituirlo in forma di immagine.
Live set per trottole in plexiglass trasparente, infine, quello creato da Myriam Bleau nel suo Soft Revolvers: il giocattolo diviene vero e proprio strumento musicale per un concerto elettronico fuori dal comune.
Artisti in Residenza 2015 – Emanuela Ascari. Ciò che è vivo project
L’artista Emanuela Ascari presenta le opere realizzate nel corso della sua residenza presso il MACRO nell’ambito del programma “Artisti in residenza 2015”.
Nello studio del MACRO Emanuela Ascari ha lavorato agli sviluppi di un viaggio che ha avuto luogo tra aprile e maggio 2015, Ciò che è vivo – culture tour, attraversando l’Italia per incontrare persone, agricoltori organici e biodinamici, e condividere con loro conoscenze e pratiche legate al fare agricoltura quale forma di cultura in stretta relazione con il vivente. L’artista si è rivolta all’agricoltura organica quale ambito nel quale rintracciare forme di equilibrio tra l’uomo e l’ambiente, e i principi di una eco-logia del pensiero.
In una prima fase l’artista ha allestito un laboratorio di analisi per realizzare delle cromatografie di campioni di terreno raccolti durante il viaggio da ognuno dei suoi ospiti, realizzando così delle immagini che sono espressione della qualità di quei terreni e che sono la manifestazione delle forze viventi in essi contenute. Sempre al MACRO questa parte del lavoro si svilupperà in una serie di workshop per il pubblico che vorrà partecipare alla realizzazione di tali immagini di terreni da loro portati.
Nello stesso periodo l’artista ha prodotto anche un libro d’artista con fotografie delle tappe del viaggio e testi scritti da alcuni dei suoi ospiti, che riguardano visioni e pratiche di un’agricoltura organica e consapevole, biodiversità, rapporto dell’uomo con la terra tra storia e sentimento, e una chiacchierata con Gianfranco Baruchello e Carla Subrizi, dando così forma ad una pratica relazionale che si è sviluppata in più direzioni.
Il libro è stampato in carta di canapa quale pretesto per mettere sul tavolo del dialogo l’ambiguità di una questione legata ad una pianta che caratterizzava i nostri paesaggi – l’Italia ne è stata il secondo produttore mondiale fino al Dopoguerra, che è utilizzabile per realizzare numerosi prodotti, dall’olio ai tessuti, alla carta appunto, e che oggi agricoltori e industriali faticano a far rientrare nel mercato. Questo è stato il presupposto anche per una performance, che ha avuto luogo l’8 di ottobre, in cui un contadino di Bologna che quest’anno l’ha coltivata, è arrivato al MACRO con una pianta portata a spalla e si è aggirato per le mostre di quella serata diffondendo un piacevole aroma, fino allo studio dell’artista, dove foglie e cime sono state utilizzate per fare una tisana distribuita a chi volesse provarla.
All’interno di un discorso così ampio come quello portato in campo in questo lavoro, per la mostra del 31 ottobre Ascari ha individuato un oggetto utilizzato in agricoltura quale segno che metta in relazione cultura e agricoltura. Esili sostegni utilizzati negli orti e in alcune coltivazioni, tutori per piante quali pomodori o fagioli, diventano simbolicamente sostegni per la crescita dell’uomo e si riferiscono al ruolo di sostegno culturale che l’istituzione dovrebbe avere per la collettività. Ma questi appaiono invece fragili e instabili, delle misure dell’uomo ma non adatti a sorreggerlo.
Giuliano Vangi. Opere 1994-2014
MACRO Testaccio
Un viaggio nel cuore dell’uomo e nel destino della forma plastica. Ecco il senso profondo della grande mostra di Giuliano Vangi. Ne saranno protagoniste ventisei sculture, molte delle quali di grandi dimensioni ed una trentina di disegni che presenteranno un Vangi sorprendente, rivolto alle ultime generazioni con la sua potente riflessione scultorea sul rapporto uomo/natura/società, anche in termini di violenza e prevaricazione.
La mostra è a cura di Gabriele Simongini con l’allestimento progettato da Mario Botta e l’organizzazione dello Studio Copernico di Milano.
La mostra punta soprattutto sulle sue opere degli ultimi dieci-undici anni, ben 24 sulle 26 complessivamente esposte, oltre ai disegni. Di queste, tredici sculture sono state realizzate nel 2014, alcune delle quali appositamente per MACRO Testaccio.
A proposito dell’attualità della sua ricerca, l’artista toscano si può considerare un antesignano di quella linea della scultura incentrata sul corpo umano che è stata celebrata poche settimane fa nella Hayward Gallery-Southbank Centre di Londra con la mostra “The Human Factor: The Figure in Contemporary Sculpture”, curata da Ralph Rugoff.
Eccezionalmente l’esposizione sarà arricchita dall’allestimento di un grande architetto come Botta, che da tempo segue il lavoro di Vangi.
Fra i lavori esposti spiccano bronzi di dimensioni eccezionali come “Veio” (2010), due imponenti graniti (“Persona” e “Ulisse”), una scultura di impatto sconvolgente sul tema tragico e quanto mai attuale della decapitazione come “C’era una volta” (2005), un ciclo inedito di grandi opere a due facce, che fanno dialogare scultura e pittura (“La bruma del mattino”, “L’uomo”, “L’uomo che corre”, tutte del 2014), tre marmi bianchi sul rapporto donna-mare (2014), la bellissima “Ragazza con capelli biondi” (2014), in legno di tiglio dipinto e il bronzo “2011”, di un realismo impressionante, con uno dei tanti “indignados” che dalla Spagna diedero il la ad un travolgente movimento di protesta internazionale.
In mostra sarà proiettato un documentario dedicato a Giuliano Vangi e realizzato da Raffaele Simongini.
Red Swan Hotel
Esposizione a cura di Maria Alicata, Daniele Balit e Adrienne Drake, in collaborazione con Sylvie Boulanger, direttore del Cneai (Centre national édition art image), centro d’arte francese dedicato alle pubblicazioni d’artista e piattaforma per la diffusione dell’arte.
La mostra è incentrata sul lavoro di artisti la cui ricerca elabora tematiche quali l’autorialità dell’artista, l’unicità dell’opera, la sua diffusione e l’informazione open source, e che in alcuni casi scelgono di lavorare tangenzialmente rispetto ai parametri tradizionali del mondo dell’arte. La loro pratica infrange infatti le frontiere tra le tradizionali categorie (visivo, sonoro, letterario) e forme (oggetti, performance, immagini), prediligendo produzioni che richiamano tanto espressioni poetiche che letterarie, musicali, filmiche, scientifiche.
Sono esposte sia le opere di artisti più storici, quali Pascal Doury (Parigi, 1956-2001) e Michel Journiac (Parigi, 1935-1995), sia lavori più recenti di artisti come Ben Kinmont (nato nel 1963 a Burlington, Virginia, USA), Pierre Leguillon (nato nel 1969 a Parigi), Seth Price (nato nel 1973 a East Jerusalem), Yann Sérandour (nato nel 1974 a Vannes, Francia), Samon Takahashi (nato nel 1970, Francia) e il collettivo Continuous Project (fondato nel 2003 da Bettina Funcke, Wade Guyton, Joseph Logan e Seth Price), tutte figure accomunate dall’impiego di strategie meno convenzionali rispetto alle tradizionali forme dell’arte contemporanea.
Cyril de Commarque. Frontiers
Prima mostra personale in Italia dell’artista francese Cyril de Commarque. L’esposizione è a cura di Pier Paolo Pancotto, da tempo impegnato in una sua personale indagine sullo speciale rapporto esistente, ancora oggi, tra artisti stranieri e Roma.
Il progetto espositivo è composto da una grande installazione formata da tre importanti opere ed ha per soggetto il rapporto tra l’individuo ed il concetto di “confine”, articolato in tutte le sue sfumature semantiche: emotive, culturali e sociali.
Frontiers è un lavoro costituito da una serie di sculture in alluminio placcato oro e ottone lucidato che hanno la forma dei confini di paesi tra cui Israele, Germania, Russia, Turchia, Austria, e che, attraverso strati sovrapposti di metallo, rappresentano l’evoluzione dei confini stessi nella storia recente. La riflessione dell’artista parte dal significato attribuito alle frontiere, dalla considerazione delle stesse come simbolo delle nazioni e di come gli esseri umani combattano da sempre per esse, attraversandole sia legalmente che illegalmente ed erigendo muri. Simboleggiano l’egemonia ma anche le nostre paure. I confini cambiano, nel corso di un secolo la fisionomia del mondo si è costantemente evoluta. A causa dei conflitti, i confini si sono spostati e sono simili a strati sovrapposti. Gli effetti sono migrazioni forzate, umiliazione, lotte, senso di frustrazione, minoranze etniche e anche riconciliazione, pace.
Cyril de Commarque è nato in Francia nel 1970; attualmente vive e lavora tra Londra e Ibiza.
From Vera to Veruschka. The Unseen photographs by Johnny Moncada
a cura di Valentina Moncada
Nell’ambito della XIII edizione di FOTOGRAFIA Festival Internazionale di Roma “PORTRAIT”, vengono presentati gli scatti inediti del fotografo di moda Johnny Moncada (attivo proprio nella capitale tra il 1955 e il 1970) realizzati durante gli anni 1963 e 1964. Si tratta di 43 ritratti e fotografie che hanno come protagonista la giovanissima modella tedesca Vera von Lehndorff-Steinort, presto nota come la mitica Veruschka, che indossa abiti dell’alta moda italiana.
Lo studio di Moncada, in via Margutta, fu punto di riferimento della nascente Scuola di Piazza del Popolo, un ritrovo di grande fermento culturale, frequentato da importanti personaggi della cultura e della moda italiana: da Cy Twombly a Gastone Novelli e Achille Perilli, Federico Fellini, gli stilisti Emilio Pucci, Valentino, Roccobarocco, per citarne alcuni, e le famose modelle dell’epoca come Jean Shrimpton, Barbara Bach, Ali McGraw, Joan Whelan, che il fotografo sposerà nel 1956, le italiane Mirella Petteni, Isa Stoppi, Alberta Tiburzi, Iris Bianchi.
Questi scatti inediti, dimenticati in vecchi bauli per circa cinquant’anni, vengono riportati solo oggi alla luce dall’attento lavoro di restauro, archiviazione e ricerca dell’Archivio Johnny Moncada operato da Valentina Moncada, figlia del fotografo.
ZERO – La prima grande retrospettiva su Renato Zero
La mostra è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con il MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma. Servizi Museali di Zètema Progetto Cultura. Produzione e organizzazione sono a cura di Tattica Srl, l’ideazione di Indipendente Mente, progetto N!03, la direzione creativa di Verba Manent.
MACRO Testaccio
La Pelanda – Centro di produzione culturale
Un allestimento monumentale e multisensoriale racconterà come mai prima d’ora l’artista più originale e provocatorio del nostro tempo e il magico legame arte-vita.
Un mosaico di documenti, immagini, musica, costumi e cimeli per celebrare attraverso sei ambienti ad alta tecnologia le sue canzoni, le sue metamorfosi e le sue battaglie, e svelare attraverso materiale introvabile la parte ancora nascosta del suo inesauribile pianeta, che è arte e musica ma anche storia viva degli ultimi 40 anni.
Un percorso oltre Renato stesso, nel tempo e nella musica di un Paese, nel suo costume e nelle sue maschere, tra moda e spettacolo, vizi, virtù, rivoluzioni e contraddizioni di un intero popolo.
Uscita d’Emergenza
Promossa da
Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali.
L’Accademia di Belle Arti di Roma presenta una mostra di 14 giovani artisti curata da Whart. Saranno esposte le opere selezionate da Valeriana Berchicci, Chiara Caramazza, Roberta Ianniti e Francesca Lilli, giovani curatrici della Scuola curatori dell’Accademia che hanno formato il gruppo Whart.
Il progetto, sviluppatosi durante l’ultimo anno, prende spunto da una frase contenuta nel libro Non per profitto della filosofa americana Martha Nussbam:
“Se non insistiamo sul valore fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno accantonate perché non producono denaro. Ma esse servono a qualcosa di ben più prezioso, servono cioè a costruire un mondo degno di essere vissuto, con persone che siano in grado di vedere gli altri esseri umani come persone a tutto tondo, con pensieri e sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con nazioni che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore del confronto simpatetico e improntato alla ragione”.
Uscita d’Emergenza intende riflettere, attraverso il lavoro di quattordici giovani artisti e quattro curatori in erba, sul significato della cultura umanistica nell’era ipertecnologica e sul valore dei luoghi della sua formazione, offrendo una visione ampia e articolata della produzione artistica e “di pensiero” delle giovani generazioni.
La mostra è anche l’occasione per degli artisti emergenti di misurarsi con lo spazio pubblico e, cosa più importante, con gli attori e gli spettatori della scena artistica romana.
La mostra è stata realizzata con l’apporto congiunto di diverse scuole dell’Accademia, che hanno dato il loro contributo all’organizzazione e all’allestimento dell’evento. Hanno partecipato studenti dei corsi di Comunicazione e Didattica dell’arte, di Grafica Editoriale, di Allestimento degli Spazi Espositivi e di Arti Multimediali e Tecnologiche.
Gli artisti: Dario Agati, Giulio Bensasson, Lucia Bricco, Milica Cirovic, Ola Czuba, Emanuele D’Alò, Lorenzo Modica, Claudio Pantò, Matteo Pisapia, Sofia Ricciardi, Andrea Rinaldi, David Ferro Salge, Paolo Scarfone, Jianchao Xue
Timur Kerim – Incedayi Roma e Istanbul, sulle orme della storia
La mostra è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, realizzata con il supporto del Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Turchia, con il patrocinio e la collaborazione dell’Ambasciata di Turchia in Italia, e con il contributo di Polimeks Holding.
Esposizione dell’artista turco Timur Kerim Incedayi, che dagli anni Sessanta ad oggi ha rappresentato sempre un vero e proprio ponte fra Oriente e Occidente e, in particolare, fra Istanbul e Roma, due città, due storie e civiltà che nei secoli si sono confrontate e intrecciate per diversi e molteplici aspetti e che tornano a rispecchiarsi e confrontarsi proprio nella memoria pittorica e nella sua figurazione.
L’artista espone circa 50 opere di diverso formato, tecniche miste su cartone, dove a volte prevale il pigmento sulla figurazione.
Le opere esposte, per lo più inedite, sono dedicate al rapporto fra le due città, evidenziando un tema caro all’artista: la profonda e magica risonanza di un passato artistico e culturale che accomuna due grandi metropoli influenti nell’area del Mediterraneo.
L’esposizione è accompagnata da un catalogo pubblicato dall’editore CieRre, con saggi di Maurizio Calvesi e Maurizio Marini.
Artisti in Residenza: Cherimus – Valentina Vetturi
La mostra è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, e realizzata con la collaborazione della Fondazione MAXXI – Museo delle Arti del XXI secolo.
MACRO Testaccio
Nell’ambito del programma dedicato ai giovani artisti italiani e internazionali, cui il museo mette a disposizione uno studio e un appartamento per poter realizzare un progetto artistico originale, elaborato per l’occasione, sono protagonisti di questo appuntamento Cherimus (Marco Colombaioni, Matteo Rubbi e Emiliana Sabiu) e Valentina Vetturi (Reggio Calabria, 1979).
Il lavoro che Cherimus espone al MACRO costituisce l’evoluzione dell’opera Il Gioco dell’Oca di Marco Colombaioni presentata al MAXXI nel mese di ottobre 2014 all’interno della rassegna Esercizi di rivoluzione, a cura di Nomas Foundation. L’opera è una riedizione de Il Gioco dell’Oca realizzato dall’artista Marco Colombaioni (Milano, 1983 – Ravenna, 2011) nel 2009 a Valledoria, in Sardegna: un grande dipinto a cielo aperto in cui tutti potevano entrare per partecipare al gioco. Cherimus ha rielaborato l’opera originale di Colombaioni in chiave performativa aprendo le porte a un mondo fantastico popolato da animali, che sono stati realizzati con la collaborazione di numerose realtà del territorio romano (laboratori di sartoria, licei artistici, centri SPRAR – Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) costruendo così, oltre ai costumi, l’idea del gioco come forma di discussione e strumento di coesione sociale.
L’artista Valentina Vetturi presenta in forme inedite le opere Alzheimer Café II e La Mossa di Ettore.
Alzheimer Café è parte di una ricerca in itinere sui rapporti tra ricordo e suono che l’artista ha avviato in collaborazione con la Kunsthalle di Goeppingen e del MAXXI. L’opera ha origine da una raccolta di motivi cantati o accennati con la sola voce e realizzata nell’arco di alcuni mesi, con intento non documentario, presso centri che accolgono persone affette da patologie neurologiche che colpiscono la memoria. L’artista compone queste voci in un tessuto sonoro e crea uno spazio di ascolto, futuribile e non convenzionale, in cui i fragili ricordi personali assumono valore pubblico. Un video pone lo spettatore di fronte a questo luogo di ascolto portandolo a interrogarsi sul tema della memoria al presente e nel futuro.
La Mossa di Ettore è un’opera ispirata alla figura di Ettore Majorana (1906 – 1938?), fisico nucleare e giocatore di scacchi, attorno alla cui scomparsa si annidano ancora molte ipotesi. Presso il MACRO rivivrà il ricordo della performance realizzata nello scorso ottobre negli spazi del museo in collaborazione con la Federazione Italiana Scacchi. I sommi maestri Lexy Ortega e Massimiliano Lucaroni si sono misurati una partita in cui, insieme all’artista, hanno introdotto una nuova mossa ispirata alla scelta di Majorana di scomparire per sottrarsi al coinvolgimento in una ricerca dagli esiti potenzialmente disastrosi. L’artista rielabora il cosiddetto “dibattito post mortem”, in cui gli scacchisti si confrontano sulla partita e sulle sue possibili varianti aprendo così una riflessione sul senso del rifiuto.
Luca Maria Patella. Ambienti proiettivi animati, 1964-1984
La mostra, a cura di Benedetta Carpi De Resmini e Stefano Chiodi, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, e realizzata con il sostegno e la collaborazione con la Fondazione Morra di Napoli che da anni ne cura le esposizioni e l’archivio generale.
Attraverso la selezione di alcune tra le opere più significative dei primi due decenni della sua lunga carriera, la mostra offre possibilità di rileggere criticamente gli esordi del percorso dell’artista Luca Maria Patella.
L’esposizione riprende il titolo della prima mostra personale di Patella tenutasi a Roma nel 1968 alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini.
In anticipo sulle tendenze artistiche e culturali che sarebbero emerse solo nei decenni successivi, Luca Maria Patella è stato nella prima metà degli anni Sessanta uno dei pionieri in Europa dell’uso artistico di fotografia e film, sovente posti in relazione con lo spazio naturale e l’architettura.
Le installazioni, le azioni performative, le tele fotografiche, i film e i libri d’artista concorrono a delineare l’immagine di un artista “totale”, creando inediti punti di vista da cui osservare i mutamenti del mondo circostante e le trasformazioni dei codici linguistici, in un periodo cruciale delle pratiche artistiche degli ultimi decenni.
Parte integrante della mostra è il programma di proiezioni di film realizzati negli anni Sessanta, presentato in Sala Cinema. Le pellicole, recentemente restaurate dalla Cineteca Nazionale di Roma, dimostrano un uso sperimentale e proto-concettuale del medium cinematografico. La rassegna di film in mostra è realizzata in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale.
Note biografiche
Luca Maria Patella è uno dei maggiori protagonisti delle arti visive in Italia degli ultimi cinquant’anni. Svolge una ricerca che si serve di numerosi media espressivi e sperimentali (dalla pittura all’installazione, dalla fotografia al film, dal video al suono, dal libro al computer e alle reti telematiche), senza mai perdere il contatto con una profonda matrice estetica e poetica. Fortemente influenzato dalle nozioni di astronomia, chimica strutturale e psicologia analitica assimilate durante gli anni di formazione a Roma e a Parigi, Patella si è cimentato lungo il suo versatile itinerario artistico in un complesso confronto arte-scienza, che – in stretta connessione con la pratica artistica – implica teorizzazioni psicoanalitiche, filosofiche, linguistiche. Per quanto concerne la fotografia e il film e più in generale l’ambito dei media, Patella è stato uno dei primi artisti ad affrontare strutturalmente e sperimentalmente questo campo già nei primi anni Sessanta. Le sue produzioni e invenzioni originali sono da intendere in senso “pre-concettuale”, oltre che “comportamentale”, in un articolato dialogo con la storia.
Eugene Lemay – Dimensions of dialogue
a cura di Micol Di Veroli
La mostra è presentata in collaborazione con il Mana Contemporary di Jersey City, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e realizzato con il patrocinio dell’Ambasciata d’Israele in Italia – Ufficio Culturale e della Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti.
MACRO Testaccio
Padiglione 9A
L’artista Eugene Lemay presenta una selezione di opere multidisciplinari e di installazioni di grande formato che indagano il concetto di dialogo, riproposto in una dimensione nuova.
L’esperienza di Lemay nell’esercito israeliano lo ha avvicinato alla paura, alla morte, al buio, condizioni estreme che riemergono all’interno delle sue gigantesche opere che sembrano enormi carte geografiche della psiche, composte da frammenti linguistico-visivi.
Gli elementi presenti in ogni opera sono stati prelevati dal loro contesto originale per essere inseriti in una nuova dimensione spaziale, dove danno vita a nuove realtà tematiche e formali, rotture temporali e molteplici significati. Tale realtà relazionale utilizza l’opera d’arte come centro ideale di due interlocutori, una sorta di tramite che amplifica ogni forma di comunicazione. Grazie a questo delicato sistema, il verbo muta in una materia da disintegrare e ricomporre, un simbolo del linguaggio che diviene sostanza di tutte le cose. Ogni opera si compone infatti di una fitta trama di sentimenti e sensazioni che l’artista estrae dal suo vissuto personale per poi consegnare al fruitore, il quale a sua volta è libero di architettare un nuovo pensiero ed una nuova forma di comunicazione.
Se i tempi odierni hanno creato una sorta di globalizzazione delle identità e del linguaggio, alimentando così una forma di comunicazione prettamente retorica e priva di emozioni, le opere di Eugene Lemay riescono a ricostituire e rafforzare un’immagine totale di dialogo, relazionandosi con la sfera spirituale, con l’uomo e con ciò che lo circonda. In questa perfetta dimensione possiamo riscoprire immagini e forme perfette, senza inizio né fine, simboli e segni del dialogo capaci di estendersi su un percorso circolare, approdando ad uno scambio reale che non si conclude con la produzione dell’opera, ma prosegue verso l’attivazione della stessa tramite la presenza essenziale dello spettatore.
Eugene Lemay è celebre per le sue serie Strata, Letters e Navigator opere di grande formato che esplorano le radici del linguaggio. Nel 2013 è stato segnalato all’interno della Power 100 list del prestigioso magazine Art & Auction. Nel corso della sua carriera ha esposto alla 51ma Biennale di Venezia ed ha tenuto mostre personali alla Mike Weiss Gallery di Chelsea, alla Total Arts Gallery di Dubai ed alla Galeria De Art di Buenos Aires; ha inoltre partecipato a mostre collettive alla Art Affairs Gallery di Amsterdam ed in altre importanti istituzioni internazionali.
Giuseppe Ducrot scultore
a cura di Achille Bonito Oliva
La mostra è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
La mostra presenta una straordinaria galleria di sculture realizzate da Giuseppe Ducrot (Roma, 1966), dai grandi modelli in resina ai bozzetti in ceramica, dalle straordinarie invenzioni in terracotta invetriata alle scenografiche forme neobarocche, che si snoda in un percorso di inattese contaminazioni tematiche e materiche.
La mostra riflette la libertà compositiva di Giuseppe Ducrot, derivata da una combinazione e contaminazione di stili e di riferimenti all’antico, riletti con una sensibilità moderna, un binomio scaturito da una riflessione concettuale approfondita su di una estetica dello scolpire, condotta in solitaria autonomia. Una tenace manualità che rappresenta l’anello di congiunzione fra antico e contemporaneo, raggiunta con una raffinatissima tecnica della lavorazione dei materiali.
Alla dissoluzione della scultura, condannata come “lingua morta” già da Arturo Martini, Ducrot contrappone una centralità di un tempo etico proprio dell’artista, nel quale convivono ideazione, gestazione e realizzazione del manufatto, lontano sideralmente dalla smaterializzazione dell’arte contemporanea, dal primato dell’idea sulla materia. Scrive, al riguardo, Bonito Oliva: “E’ così che nella materia stessa della sua opera, che sia marmo o oro, terracotta o bronzo risuona l’interrogante elaborarsi della forma. Un corpo a corpo sensibile, ma non emotivo, perché ordito da un vigile sistema combinatorio, virtù del compimento e passione del dettaglio.”
Giuseppe Ducrot nasce nel 1966 a Roma, dove vive e lavora attualmente. La sua carriera artistica trae origine con l’esercizio nella tecnica della pittura a tempera e del disegno. Fonte d’ispirazione delle opere realizzate nei primi anni della sua attività sono l’arte classica della Roma imperiale, la scultura ellenistica, ma anche le invenzioni scenografiche del barocco, rilette alla luce di una inedita sensibilità contemporanea, al fine di costruire elaborate figure mitologiche e di santi.
#ROMASENZATOMICA Il disarmo parte da me!
MACRO Testaccio,
La Pelanda – Centro di produzione culturale
Mostra multimediale sul disarmo nucleare, a conclusione dell’omonima Campagna internazionale di sensibilizzazione al disarmo nucleare.
La mostra è promossa dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai in collaborazione con organizzazioni insignite del Nobel per la Pace come il Movimento Pugwash e l’International Phisicians for the Prevention of Nuclear War e organizzazioni internazionali come i Sindaci per la pace, il Segretariato del Summit mondiale dei Premi Nobel per la Pace, l’Archivio Disarmo, l’Unione Scienziati per il Disarmo, i Parlamentari per la non proliferazione nucleare e il disarmo.
La Campagna Senzatomica, che sta già mobilitando le scuole della città con l’obiettivo di coinvolgere 40mila studenti, vuole informare, far riflettere e rendere protagoniste le persone, puntando alla sottoscrizione, entro il 2015, di un trattato internazionale che bandisca definitivamente le armi nucleari dalla nostra terra e dalla vita di tutti. Perché la minaccia atomica è tutt’altro che superata: nel mondo sono ancora presenti più di 16mila bombe atomiche, di cui più di 70 in Italia.
L’esposizione (oltre quaranta pannelli, sei monitor con testimonianze di sopravvissuti a Hiroshima e Nagasaki e un’istallazione con la simulazione del rumore di un’esplosione atomica, il tutto su una superficie di oltre 700 metri quadrati) guiderà la riflessione del visitatore sul duplice tema del disarmo nucleare e del disarmo interiore, mettendo in relazione costante il comportamento collettivo con quello individuale. Quale pensiero giustifica l’annientamento totale di altri esseri umani e come possiamo trasformarlo?
Una sezione della mostra, di 10 pannelli, è dedicata ai bambini delle scuole elementari.
Sito Web
http://www.senzatomica.it/events/roma-senzatomica/
E-mail
roma@senzatomica.it
Amparo Sard. Limits
a cura di Lea Mattarella
L’esposizione, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura e al Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è sostenuta dal Governo delle Isole Baleari con l’Istituto di Studi Balearici in collaborazione con la Galleria Paola Verrengia di Salerno, che rappresenta l’artista in Italia.
MACRO Via Nizza, Sala Enel #2
Mostra dell’artista spagnola Amparo Sard la cui ricerca, incentrata sul tema dell’identità, si realizza attraverso mezzi diversificati – il disegno, la fotografia, l’installazione, il video e ultimamente anche la scultura – con i quali è possibile raccontare le complesse dinamiche esistenziali da lei affrontate.
Tuttavia, la peculiare tecnica che l’ha resa celebre a livello internazionale è quella della punzonatura su carta, con cui la superficie bianca della carta è intaccata dal traforo dell’ago che disegna le forme e i volumi, creando effetti di chiaroscuro che emergono come in un bassorilievo. In maniera poetica, paziente e anche ossessiva, la Sard tesse le sue immagini dando vita a fogli in cui convivono bellezza e fragilità, compiutezza e allarme.
La superficie forata perde la sua consistenza e diventa fragile, così come l’uomo quando si trova di fronte alle sue paure più intime o quando deve fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Gli ultimi lavori dell’artista spagnola sono imperniati, in particolare, sul tema dello sdoppiamento e del limite (tra istinto e impulso) e trovano la loro forma ideale nella scultura. Le nuove opere in fibra di vetro sembrano prolungamenti artificiali di un corpo naturale, in particolare gli arti recisi suscitano un senso d’angustia e giocano sull’ambiguità degli oggetti privi di vita.
In un percorso che si snoda tra originali opere su carta perforata, sculture, video, Amparo Sard realizza al MACRO un progetto espositivo pensato appositamente per il museo.
La mostra LIMITS, che riflette sui confini dell’essere umano e dell’identità in continuo mutamento, è suddivisa in tre diversi momenti. La prima sala contiene disegni realizzati con gli spilli e grandi opere su carta – in cui l’artista si autorappresenta in modo particolare, smontando e rimontando parti del suo corpo come fossero abiti, la seconda sala ospita quattro video – With the water to the neck (2014), Second mistake (2008), The Lifeguard (2012), Hauptpunkt (2013), la terza sala accoglie la grande scultura in fibra di vetro Limits, che dà il titolo alla mostra. La scultura, costellata interamente da buchi circolari in grado di proiettare le proprie sagome sulle pareti circostanti, è una sorta di cerchio realizzato da due braccia che si stringono, si contorcono, si avvinghiano, e che allo stesso tempo sembrano ambiguamente in procinto di difendersi o di farsi del male.
Amparo Sard (Palma de Mallorca, Spagna, 1973), è tra le artiste spagnole più significative sulla scena artistica contemporanea. Le sue opere si trovano in importanti collezioni pubbliche e private e sono state acquistate da alcuni tra i più importanti Musei, sia negli Stati Uniti che in Spagna (MOMA – New York, Guggenheim – New York, Casal Solleric – Palma de Mallorca, Museo di Arte Contemporanea di Murcia, Museo ABC – Madrid).
100 Scialoja. Azione e Pensiero
Promossa da: Roma Capitale, Assessorato Cultura e Turismo; Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali; Accademia di Belle Arti di Roma; Fondazione Toti Scialoja
Organizzazione
Zètema Progetto Cultura
In occasione del Centenario della sua nascita (1914-2014), la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, l’Accademia di Belle Arti di Roma e la Fondazione Toti Scialoja organizzano una mostra dedicata ad uno dei maggiori artisti italiani del secondo Novecento, nazionale e internazionale, Toti Scialoja.
Esposte alcune opere di Scialoja dei primi anni Quaranta – piccole tele dalla evidente sensibilità espressionista, molto vicine alla temperie internazionale di matrice soutiniana e alla pittura tonalista romana degli anni Venti-Trenta – e gli ultimi grandi teleri inediti della fine degli anni Novanta, passando per la famosa serie delle Impronte della seconda metà degli anni Cinquanta, con l’inizio dell’avventura verso “l’Azione”, come lo stesso artista la definisce, nel periodo in cui è emotivamente e stilisticamente attratto dall’espressionismo astratto americano.
Del resto è proprio fra la metà degli anni Cinquanta e i Sessanta che Scialoja soggiorna spesso in USA, dove riuscirà a consolidare una personale notorietà internazionale, stringendo anche rapporti e amicizia con i più importanti rappresentanti dell’informale americano, come Mark Rothko, Willem de Kooning e Robert Motherwell.
Per quanto riguarda il “Pensiero” di Scialoja, fra le componenti principali della sua attività artistica, in mostra saranno privilegiati alcuni aspetti del suo percorso teatrale, con l’analisi e l’esposizione di lavori relativi alla sua importante attività di scenografo e costumista, a partire dagli anni Quaranta.
Sarà esposta per la prima volta la “Macchina a pettine”, una delle cinque originali macchine sceniche di Scialoja create per l’opera di Rosso di San Secondo, Il ratto di Proserpina, andata in scena nel 1986 per il cartellone teatrale delle “Orestiadi di Gibellina”. Per l’occasione, la macchina sarà appositamente restaurata dagli artigiani di Gibellina che furono i suoi originari realizzatori, a quasi trenta anni dalla prima messa in scena, e ridipinta dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma, in un cantiere aperto allestito direttamente al MACRO.
La mostra approfondisce inoltre il tema della scrittura e della grafica per l’infanzia, dove rimane sempre alto il gioco sintattico e del non-sense messo continuamente in atto dall’artista. Proprio a tale proposito saranno anche documentate le filastrocche e le illustrazioni dell’artista dedicate ai bambini, grazie alla selezione di grafiche autografe tratte dalle quattro pubblicazioni per l’infanzia che Scialoja ha realizzato negli anni Settanta: Amato topino caro (1971), La zanzara senza zeta (1974), Una vespa! che spavento (1975), Ghiro ghiro tonto (1979). Disegni e acquerelli preparatori vengono messi a confronto, appunto, con la scrittura e il non-sense dello stesso Scialoja.
Nella sezione dedicata alla scenografia saranno anche trasmesse alcune puntate delle serie televisive RAI “Le fiabe dell’albero” (1974) e “Fantaghirò” (1975). Per l’occasione l’Accademia di Belle Arti di Roma ha realizzato un documentario dedicato a Scialoja.
Nakis Panayotidis – Guardando l’invisibile
a cura di Bruno Corà
MACRO Via Nizza, Project room #1 e #2
L’artista greco Nakis Panayotidis presenta una selezione di opere realizzate negli ultimi dieci anni, che fanno parte di una scelta delle opere in mostra al Kunstmuseum Bern fino allo scorso 15 marzo per la sua retrospettiva Nakis Panayotidis. Seeing the Invisible.
Panayotidis è senza dubbio tra gli artisti europei più significativi dialettici con l’Arte Povera, alla quale si è avvicinato durante il suo soggiorno a Torino negli anni Sessanta. E’ tuttavia un artista poliedrico, la cui attività artistica non può essere ricondotta solo a questo filone. Il suo stile e le tecniche usate, infatti, non permettono di classificare il suo lavoro in modo univoco.
Nelle sue opere Panayotidis si avvale di tecniche variegate che utilizzano, spesso simultaneamente, immagini fotografiche, dipinti e disegni, su cui egli costruisce una complessità innestando ulteriori materiali che ne enfatizzano le caratteristiche, tra cui spiccano oggetti di uso quotidiano ed elementi in metallo e vetro, trattati sempre alla stregua di materiali poveri.
Incline all’incidentale e al transitorio, utilizza anche il vapore e la luce per alcune sue istallazioni. Per Panayotidis la costruzione dell’idea è sempre basata sulla totale libertà di esplorazione e improvvisazione. Anche nel medesimo gruppo di opere, ognuna di esse spicca per la propria singolarità. E’ raro trovare nei suoi lavori la ripetizione di elementi visivi. E’ solo riflettendo sul contesto ed il significato della pluralità dei suoi lavori che si scorge l’interazione fra essi. Le opere aspirano tutte a rivelare quel che è già avvenuto e quel che avverrà. La chiave di lettura della sua opera è la consapevolezza che tutto scorre in un flusso perenne.
Il suo lavoro è inoltre fortemente influenzato dalle sue origini e conseguentemente dalla mitologia greca. Anzi, spesso l’artista ricorre all’antico per creare il nuovo.
L’installazione Ladro di luce, presentata per la prima volta a Salonicco nel 2005, allude ad esempio al mitico gesto di Prometeo. Il furto del fuoco dal cielo degli dèi viene rappresentato da una serie di forme bronzee sporgenti dalla parete, che, come pugni chiusi dell’artista, stringono un segmento di luce al neon. L’artista ha simbolicamente sottratto la luce che Prometeo ha rubato per l’umanità; diventando allo stesso tempo ladro e nuovo portatore di luce egli offre infatti in cambio un fascio di luce blu, che rappresenta la voglia di amare, di sapere, di sognare ed essere liberi.
Un ruolo particolare occupa, nel variegato lavoro di Panayotidis, l’utilizzo luminoso del neon.
Come osserva il curatore della mostra Bruno Corà: “In tutti i casi la luce per Panayotidis deve essere ricondotta sin dalle prime sue introduzioni nell’opera come dato di illuminazione oggettiva, ma anche come elemento metaforico di ciò che rischiara la tenebra e impedisce l’oscuramento, l’incoscienza, l’oblio”. Ed inoltre: “Per Panayotidis la luce diviene lo strumento di una sintetica trasmissione di contenuti di carattere spazio-temporale: memoria, tempo, immaginario”.
L’artista attribuisce alla luce un valore unico, distaccato ed autonomo rispetto alla sua mera valenza funzionale. Le sue fotografie creano fenomeni di luce che rimandano ad effigi barocche di santi. I limiti temporali e spaziali appaiono sospesi, specie negli scatti di immagini del mare, che rappresenta per l’artista un eterno compagno ed un passaggio ad altri luoghi e tempi.
In Con lo sguardo del nomade, 2009 la linea dell’orizzonte resa bianca dalla retroilluminazione del lavoro comprime la linea di fuga prospettica in cui è suddiviso lo spazio.
I soggetti dei suoi lavori fotografici non sono le eroiche rovine della Grecia classica, bensì zone industriali abbandonate nelle periferie delle città moderne, dove la natura rivendica la propria supremazia crescendo selvaggiamente, come nella stazione ferroviaria protagonista di Linee di partenza linee d’arrivo, 2005.
Di rilievo i lavori a neon primari e lineari nella forma, come l’opera Kabul, 2010 in cui l’artista ribalta le lettere greche che compongono le parole “battaglia” e “fama”, senza che esse perdano di leggibilità e significato.
Dopo la tappa di Roma, la mostra nel mese di ottobre sarà ospitata dall’Hess Art Museum, The Hess Collection Winery, Napa, USA.
Biografia
Nakis Panayotidis nasce ad Atene nel 1947. Già dall’adolescenza è vicino al mondo del teatro e della scenografia. Nel 1966 si trasferisce a Torino dove studia architettura ed entra in contatto con l’architetto Volterrani e con lo scultore Molinari, che lo iniziano alla carriera artistica. Frequentando la Galleria Christian Stein ed i suoi artisti scopre l’Arte Povera. Nel 1967 si trasferisce a Roma e si iscrive all’Accademia di Belle Arti, seguendo, in particolare, i corsi di cinema e teatro. Ma appena un anno dopo ritorna a Torino ed inizia a lavorare per Volterrani e Molinari. E’ in quegli anni che si sviluppa la sua passione per la politica, essendo egli convinto che l’arte possa essere un veicolo efficace di per sé ideologico. Nel corso degli anni settanta si trasferisce a Berna (dove vive e lavora tuttora) dove incontra e sposa Agnès Häussler, da cui ha una figlia. Il suo percorso artistico è caratterizzato da una forte sperimentazione, non esente da critiche, che rappresentano per l’artista uno stimolo per esplorare nuovi nuove idee e nuovi linguaggi.
Sergio Staino. Satira e sogni
Antologica che ripercorre i passaggi decisivi del lavoro artistico di Sergio Staino, esponendo circa 300 opere, tra disegni, acquerelli e lavori digitali, in un percorso affascinante che permette di cogliere le diverse sfaccettature e le diverse fasi dell’intensa attività creativa di uno dei nostri massimi disegnatori e vignettisti, nonché attento narratore e arguto critico del costume nazionale.
In oltre 35 anni di carriera, Sergio Staino si è infatti cimentato con successo non solo come autore satirico ma anche come regista cinematografico, scrittore, scenografo, e promotore culturale.
La mostra romana si evidenzia oltre che per il suo valore artistico anche come testimonianza morale e culturale dopo i drammatici fatti di Parigi. Non a caso Sergio Staino, fraterno amico di Georges Wolinski, ha voluto dedicargli il catalogo, realizzato dalla Casa editrice Effigi.
Entrando all’ex mattatoio, il visitatore è accolto subito da un lungo e variopinto corteo di personaggi creati da Sergio Staino.
Negli spazi interni sono esposte tutte le più rilevanti opere dell’autore, dai grandi busti di personaggi protagonisti degli ultimi trenta anni della nostra vita politica e istituzionale, narrati con strisce, alcune delle quali mai esposte in Italia, al mondo di Bobo, a partire dalle strisce di Linus degli anni Settanta, preziose per comprendere come sono nati e si sono sviluppati i profili dei protagonisti di quella che poi è divenuta una vera e propria saga della vita sociale politica italiana.
In mostra anche due grandi fondali del Teatro Ariston di Sanremo disegnati da Staino per le due edizioni del Premio Tenco del 2006 e 2007 e un grande schermo – circondato dai disegni di “Lasciami cantare una canzone” – su cui scorrono le immagini e le musiche di famose interpretazioni di Gaber, De André, Guccini e di altri cantautori.
Le opere digitali – grandi tavole che mescolano la tecnica dell’acquarello con quella digitale – occupano un ruolo importante nella mostra romana.
E’ lo stesso Staino a spiegare come si realizzano gli acquerelli digitali: “La tecnica è quella che in questo momento sto usando di più e che mi permette di combinare due termini, acquarello e digitale, apparentemente incompatibili. Prima con la penna a china disegno alcune parti sommarie dell’immagine che voglio costruire poi, ad acquarello, coloro le parti in cui grosso modo si completeranno le figure, alla fine scannerizzo tutto ed inizio il lavoro di rifinitura disegnando sul touch screen i particolari più minuti o correggendo quelli che non mi convincono. Vengono fuori questi ibridi d’autore dei quali naturalmente non esistono originali”.
Oltre alle opere esposte a La Pelanda, una sezione “satirico-agro-alimentare” della mostra, dal significativo titolo “Cavoli a merenda”, sarà allestita presso Eataly all’Ostiense.
Note biografiche
Sergio Staino è uno tra i più conosciuti e amati cartoonist satirici italiani. Esordì nel fumetto nel 1979 sulle pagine di Linus con il personaggio autocaricaturale Bobo. Da allora la sua attività artistica si è notevolmente ampliata andando ad esplorare i settori creativi più disparati: dal cinema alla televisione, alla letteratura, al giornalismo, alla promozione culturale in genere. Il suo amore più caro è comunque rimasto il fumetto ed è nelle strisce disegnate che, probabilmente, Staino riesce a cogliere profondamente emozioni, angosce ed entusiasmi. Sentimenti completamente condivisi dalla parte più inquieta e progressista della società italiana, capace di grande impegno civile collegato sempre ad una grande autoironia. Vive e lavora sulle colline fiorentine, nel comune di Scandicci.
I Belgi. Barbari e Poeti
Promossa da
Roma Capitale, Assessorato Cultura e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
Organizzazione
Rond-Point des Arts Zètema Progetto Cultura
La mostra espone opere dei maggiori artisti belgi del XX secolo e del XXI secolo, delineando una panoramica sull’arte e la cultura belga del periodo, sulle sue molteplici declinazioni e sul suo carattere iconoclasta, ironico e poetico.
Il titolo della mostra è ispirato al passo del De Bello Gallico di Giulio Cesare “Horum omnium fortissimi sunt Belgae” (Di tutti, i Belgi sono i più coraggiosi), per sottolineare l’antico legame tra il Belgio e Roma e il carattere intrepido e selvaggio, libero da convenzioni e categorizzazioni, che fa parte integrante dell’anima e della cultura belga.
Una libertà che, nelle opere esposte, si riflette spesso nell’uso di materiali insoliti e nella presenza continua di autoironia e sarcasmo, pur se accompagnati da una vena poetica notevole.
Attraverso le opere di artisti che hanno segnato l’arte belga del XX secolo come James Ensor, René Magritte, Paul Delvaux, Marcel Broodthaers, Constant Permeke, ma anche tramite i lavori di contemporanei tra cui Panamarenko, Messieurs Delmotte, Jan Fabre, Pascal Bernier, la mostra mette in evidenza la continuità di questa tradizione barbara e poetica.
Artisti in mostra: James Ensor, Paul Delvaux, Armand Simon, Constant Permeke, Frits Van den Berghe, Gustave Van de Woestyne, E.L.T. Mesens, Félicien Rops, Léon Spilliaert, René Magritte, Camille D’Havé, Marcel Mariën, Christian Dotremont, Panamarenko, Marcel Broodthaers, Pierre Alechinsky, Paul Duhem, Frédéric Penelle & Yannick Jacquet, Jacques Charlier, Koen Vanmechelen, Johan Muyle, Daniel Pelletti, Mario Ferretti, Vincent Solheid, Pascal Tassini, Peter Buggenhout, Michel Mouffe, Jan Fabre, Wim Delvoye, Hell’O Monsters, Jacques Lennep, Jean-Luc Moerman, Messieurs Delmotte, Patrick van Roy, Pascal Bernier, Leo Copers, Berlinde De Bruyckere, Alessandro Filippini, Phil Van Duynen, Walter Swennen, Daily-Bul.
Appunti di una Generazione #1 Giuseppe Pietroniro – Andrea Salvino
a cura di Costantino D’Orazio
MACRO Via Nizza
Nuovo ciclo di mostre personali dedicate agli artisti italiani emersi negli anni ’90. Ad aprire la rassegna sono Giuseppe Pietroniro (“E’ come se nulla fosse…”) e Andrea Salvino (“Ricominciare da capo non significa tornare indietro”), artisti che si sono formati e hanno esordito a Roma nell’ultimo scorcio del XX secolo.
Pietroniro indaga continuamente il senso del limite, categoria connaturata all’uomo e al tempo: limite della visione, limite dello spazio, limite della relazione tra uomo e uomo. Il valore aggiunto della sua ricerca consiste nella capacità di raccontare una dimensione filosofica ed esistenziale attraverso l’uso di oggetti quotidiani, sapientemente modificati così che l’opera si trasformi in una sfida alla funzionalità o crei illusioni ottiche e artifici formali dove l’occhio entra in conflitto con la mente, che cerca una spiegazione plausibile entro il limite della ragione.
La ricerca artistica di Salvino è strettamente connessa alla storia e trae ispirazione dall’iconografia politica, sociale e cinematografica fondamentalmente del 900 Italiano ed Europeo fino ai nostri giorni. Il suo lavoro può essere inteso come una pagina di storia non ufficiale scritta per immagini attraverso aneddoti e dettagli tratti da documenti figurativi.
Note biografiche
Giuseppe Pietroniro
Toronto (Canada) 1968. Vive e lavora a Roma.
Tra le sue mostre personali: 2012 – Né qui né altrove, Museo H.C. Andersen, GNAM, Roma, (con Marco Raparelli), 2011 – Risonanza, Fondazione Merz, Torino; 2009 – Lo scandalo del vuoto, Spazio Gerra, Reggio Emila; 2008 – Giuseppe!!! W Warsawie, Zacheta National Gallery of Art, Galeria Kordegarda; Warszawa, Polonia, 2007 – Perluciditas, Galleria Maze, Torino.
Andrea Salvino
Roma 1969. Vive e lavora a Berlino.
Tra le sue mostre personali: 2013 – PRIVATE, Studio Geddes, Roma; 2012 La Mer en Hiver, Grimmuseum, Berlino; 2011 – “Non riconciliati o solo violenza aiuta, dove violenza regna – Nicht versöhnt oder Es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrscht”, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; 2005 – Antagonista, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano; 2004 – I senza nome, Galleria Roma Roma Roma (Toby Webster, Gavin Brown, Franco Noero), Roma; 2003 – Donne facili, Galleria Tommaso Corvi-Mora, Londra; 2001 – Il disprezzo, Fondazione A. Olivetti, Roma; Spazio aperto, Galleria d’Arte Moderna, Bologna (con Marco Neri); 1995 – Cloro al clero, Milleventi, Torino; 1994 – Paghertete caro, pagherete tutto, Autori-Messa, Roma
Opere della collezione MACRO #1 L’altra metà dell’arte. Un percorso al femminile nella Collezione Macro
Prima mostra di un nuovo ciclo che intende valorizzare la collezione permanente del MACRO, una consistente raccolta formatasi con opere dagli anni Sessanta in poi. Questo primo focus si concentra su diciassette figure femminili di spicco del panorama artistico italiano ed internazionale.
Si tratta di Titina Maselli, Carla Accardi, Giosetta Fioroni, Maria Lai, Isabella Ducrot, Sissi, Alessandra Tesi, Avish Khebrehzadeh, Elisa Montessori, Amparo Sard, Paola Gandolfi, Lia Drei, Rosanna Lancia, Nedda Guidi, Benedetta Bonichi, Beatrice Pediconi, Elisabetta Catalano.
Costruita prevalentemente con opere di grande impatto visivo e ambientale, la mostra stabilisce parallelismi tra le diverse generazioni, trovando alcuni filoni di continuità tra le artiste, nonostante le distanze: l’esperienza pittorica bidimensionale delle maestre Maselli ed Accardi si apre oltre i confini stretti delle tele, con il fare artigianale, il cucito, la produzione tessile, nelle opere di Sissi, Isabella Ducrot, Maria Lai; una manualità che torna nella grande videoinstallazione di Alessandra Tesi, nelle opere scultoree in ceramica di Giosetta Fioroni e Nedda Guidi e nelle meticolose opere su carta di Elisa Montessori, Amparo Sard e Lia Drei; la carta è fondamentale anche per Avisk Khebrehzadeh che ne fa il supporto per un’altra importante videoinstallazione presente in mostra; per Alessandra Bonichi tema centrale è l’introspezione del corpo, motivo che ritorna con Paola Gandolfi e, ancora, con Amparo Sard; la fragilità dell’essere è un concetto espresso come segno metaforico nella scultura di Rosanna Lancia e nei corpi evanescenti di Beatrice Pediconi; la memoria privata ed il racconto sono i temi conduttori di Lai, Khebrehzadeh, Fioroni.
Un discorso a sé costituisce il gruppo di fotografie, in comodato Unicredit, di Elisabetta Catalano (Roma, 1944-2014), importante testimone e ritrattista della vita culturale e cinematografica italiana dagli anni Settanta in poi, coinvolta spesso, con le sue fotografie, nei processi creativi delle opere di performer e artisti concettuali (M. Pistoletto, V. Pisani, F. Mauri, S. Chia, M. Rotella, C. Tacchi, G. De Dominicis). Per gentile concessione dell’Archivio Catalano, è presente in mostra anche l’unico ritratto fotografico di artista “Titina Maselli nel suio studio”, 1976.
Tobias Rehberger “Wrap it up”
Esposizione dedicata a Tobias Rehberger, uno dei più interessanti artisti tedeschi sulla scena internazionale dell’arte contemporanea, al confine tra arte figurativa, cultura pop e design. In mostra le opere su carta provenienti dalla Deutsche Bank Collection, realizzate tra il 1991 e il 2003, altri lavori più recenti in cui l’artista utilizza sempre il mezzo cartaceo, e l’installazione “Infections”, composta da 33 esemplari unici di lampade, parte di un progetto ancora in corso iniziato nel 2002.
The Beats – Larry Fink
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children.
Queste fotografie di Larry Fink, buie e bellissime, scattate come racconta lui nel 1958, quando aveva 17 o 18 anni, ritraggono un convinto gruppo underground che Larry identifica come i Beat di seconda generazione. Sono gli artisti con cui viveva, poeti, musicisti, pittori che, occupando gli scantinati del Sullivan Street Theatre, non erano “sotterranei” solo in senso spirituale o metaforico, ma proprio in senso stretto. Il Sullivan Street Theatre confinava col Village Gate, il famoso jazz club, e loro, a furia di scavarsi un passaggio dagli scantinati, mattone dopo mattone, fino al retro del locale, riuscirono a sentire suonare Coltrane, Mingus e Art Blakey – per citarne alcuni – i “principi della libertà espressiva” come li definisce Larry.
Asylum of the Birds – Roger Ballen
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children.
Asylum of the Birds è il titolo che Roger Ballen ha scelto per riunire i suoi lavori recenti. Parole nel cui spessore giacciono realtà e significati diversi. Da un lato, un insieme di baracche nei sobborghi di Johannesburg che, tra verità e finzione, ospita un variegato gruppo di abitanti ed un cospicuo numero di uccelli in libertà. Dall’altro, un luogo simbolico nel quale si incontrano terra e cielo, vita e morte, inferno e paradiso. Al tempo stesso rifugio, prigione, nido e gabbia, in esso convivono la colomba bianca ed il corvo nero, l’apparizione biblica che annuncia il futuro o l’ incubo allucinato di una fine senza fine, come nei versi di Poe.
Nell’ambiguità di simboli e metafore, questa raccolta di fotografie delinea un universo che ricorda quello dei Caprichos di Goya. E’ un “sueno de la razon”, un sonno o un sogno della ragione che “produce monstruos”, genera mostri, esseri straordinari, eventi prodigiosi. Un’immersione profonda nei cunicoli del subconscio fino agli inferi, fino ai territori più oscuri dell’Io. Roger Ballen, in effetti, lascia libero il proprio pensiero di regredire al di qua del ragionamento e della logica. Si avventura in quei labirinti della psiche che precedono le idee, nei quali regnano le immagini. Là dove esse nascono seguendo il flusso dell’analogia e si susseguono sotto la spinta di forze incontrollate. Non si giustificano attraverso la costruzione razionale di una scala di valori.
Asylum of the Birds è un universo visionario, alogico e amorale, dove bene e male si fiancheggiano senza escludersi. Il bello non coincide con l’uno, ne ciò che e brutto rappresenta necessariamente l’altro. E’ un luogo in cui anche bello e brutto sono ancora- o ormai – indistinti. Un universo estetico fondato sulla meraviglia, non sull’armonia. Un mondo nel quale l’apparenza non ha nessuna importanza in sé, perché ogni cosa, animale o persona è molto più di ciò che si vede, è un’apparizione. Si manifesta come un involucro materiale, ma al tempo stesso e una reliquia dalla quale l’invisibile può essere evocato. L’opera dell’artista diventa cosi una sorta di rito sciamanico, teso a rivelare ciò che ogni fotografia occulta dietro il proprio aspetto di riproduzione oggettiva della realtà. Talismani, feticci, amuleti. Strumenti di un rito funebre, dapprima, e di una magica celebrazione della rinascita, in seguito. Simboli della caduta e del volo. Visioni di Underworld e Heaven, che convivono all’interno della stessa mente.
Luoghi comuni – Nicolò Degiorgis, Gianfranco Gallucci, Guido Gazzilli
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children.
La scelta che l’autore compie rispetto all’obiettivo verso il quale rivolgere lo sguardo dell’osservatore, diventa l’elemento discriminante dell’operazione fotografica, mentre la posizione che si assume dietro la macchina è quella di chi intende mostrare qualcosa, isolando una precisa porzione di realtà dal continuo flusso visivo al quale siamo assuefatti. Nicolo Degiorgis, Gianfranco Gallucci e Guido Gazzilli si sono rivolti a un fenomeno particolare, quello dell’immigrazione, con i suoi flussi e le sue dinamiche, concentrandosi ciascuno su aspetti differenti e prospettive personali, ma partecipando alla stessa urgenza narrativa.
Emerge una volontà condivisa di ritrarre, nel senso più accurato del termine, che affonda nelle radici etimologiche della parola stessa: re – trahere, ovvero tirare fuori, restituire l’immagine di qualcosa di altro da sé, rispetto al quale porsi in una posizione frontale di studio e osservazione. Muovendo dalla figura umana, la portata dei lavori si allarga a comprendere ampie parti di paesaggio urbano e sociale, per dichiarare apertamente la provenienza delle immagini da contesti familiari e stabilire un’immediata relazione tra soggetto, autore e osservatore.
È la ben nota Lampedusa a fare da sfondo alle fotografie di Guido Gazzilli, che lì si è recato più volte, vincendo la riluttanza degli abitanti rispetto a coloro che arrivano dall’esterno: l’immagine fornita dalla stampa di ciò che accade non risponde al reale, ma lo stravolge in termini allarmanti e sensazionalistici. Ahmed si è lasciato ritrarre all’interno dell’abitazione della famiglia che gli ha offerto ospitalità, i suoi ritratti si alternano alle vedute di un’isola dove chi arriva da fuori assomiglia a chi vi è nato, dando corpo a un racconto che procede per momenti e tratteggia il farsi e non farsidella storia.
Gianfranco Gallucci ha realizzato per ciascuno dei 18 stranieri coinvolti – rappresentativi delle comunità più numerose di Roma – un triplice ritratto, in una sorta di destrutturazione pirandelliana del soggetto. Uno scatto a casa, uno sul posto di lavoro e un’immagine del luogo preferito della capitale attraversano la superficie dell’io pubblico e di quello privato, per veicolare episodi di integrazione riuscita, vicini alle tante storie recenti ma dimenticate di emigrazione italiana. La molteplice prospettiva di Gallucci sembra forzare le logiche convenzionali del ritratto e preferire una visione simultanea, più adatta ad affrontare la complessità della questione identitaria.
Sono invece le dinamiche alla base dell’appropriazione e dell’adattamento il punto di partenza della ricerca di Nicolo Degiorgis, che per anni ha documentato i luoghi di culto islamici che si sono moltiplicati nelle regioni del nordest. La mancanza di edifici adibiti a moschee spinge i musulmani a riunirsi in luoghi diversi e a inserirsi in spazi altrimenti vacanti — siano essi palestre, negozi o garage — trovando una propria collocazione nell’ambito dell’annullamento architettonico che caratterizza le periferie italiane. Le immagini di Degiorgis, raccolte in un ampio progetto editoriale, dicono di uno spaesamento, di un senso concreto del fuori luogo, che spesso e il tratto più preciso di queste storie.
Wrong – Asger Carlsen
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children.
Le fotografie di Asger Carlsen documentano un mondo visionario, dove il grottesco, l’assurdo e il surreale assumono i contorni dell’ordinariamente normale. A prima vista, Wrong appare come una collezione di momenti di banale quotidianità, ritratti vernacolari o documenti di piccoli eventi di cronaca. Riconosciamo il contesto di queste immagini come fin troppo familiare, ma le persone e le creature che abitano questa realtà distorta sono tutt’altro. Oscure presenze ibride e geneticamente viziate, personaggi con protesi per arti rudemente fatte in casa, mutanti a due teste e strane conformazioni innaturali: queste sono alcune delle allucinazioni che popolano il mondo distopico di Wrong. Eppure, il profondo senso di disagio provocato dalla vista di queste immagini ha un’altra fonte. Anche se i corpi sono riconoscibilmente costrutti immaginari, la loro esistenza e comunque all’interno del regno del possibile o concepibile. Questo perché la fotografia ha un potere penetrante che la pittura, la scultura o il disegno non hanno: nonostante le riserve della nostra mente critica, siamo costretti ad assumere che l’oggetto raffigurato esiste realmente.
Carlsen crea le sue fotografie catturando le immagini con la macchina fotografica per poi manipolarle e alterarle con un processo di editing digitale. La messa in scena e il ritocco consentono la creazione di illusioni ottiche con cicatrici invisibili. L’illuminazione dura e diretta del flash e la scala di grigi del bianco e nero infondono un tono di autenticità.
L’immagine digitale non condivide più le funzioni essenziali della fotografia volte a documentare l’esperienza. Carlsen rappresenta una generazione di artisti che in modo aggressivo sfruttano le potenzialità di editing delle immagini digitali per i loro processi creativi. La sua finzione artistica non concerne la verità o la falsità, ma la nostra facoltà di credere.
Wrong deve essere interpretato come un sollievo dalla realtà. Una visione inquietante e disturbante del quotidiano che ci costringe a mettere in discussione i presupposti di obiettività, memoria e documento del mezzo fotografico. Carlsen attraversa lo specchio della cultura visiva moderna occupando una posizione parallela nella nuova cultura del virtuale e della speculazione. La questione di rappresentare la realtà lascia il passo alla costruzione del senso.
Conflitto e identità – Adam Broomberg & Oliver Chanarin
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children.
Il rapporto tra identità e fotografia è da sempre caratterizzato da una forte conflittualità tra ciò che è osservato e ciò che è percepito. R. Barthes avvertiva l’atto di essere fotografati come una micro esperienza della morte, che crea e mortifica a piacimento il corpo tramutandolo in un oggetto, riscontrando il pericolo di un’effigie legata ad un io immobile lasciato in balia di un senso che sara attribuito dalla società e dal contesto di fruizione. La fotografia, declinata come strumento archivistico, ha messo più volte in risalto i conflitti latenti tra identità singole e collettiva e lo stato di potere. Eppure, persino nella foto segnaletica che presuppone per sua natura conflittualità, la foto-ritratto non può prescindere dalla cooperazione del soggetto, in quanto egli non si esime dall’assumere una posa, ovvero indossare una maschera di senso.
Dagli Archivi di Stato, per opera di un progetto di ricerca di a cura di Eugenio Lo Sardo e Manola I. Venzo, emerge uno straordinario ritratto collettivo del movimento anarchico nel periodo della sua massima estensione, tra il 1880 ed il 1914. A dettare il senso, più che l’annotazione del reato, e la parola “Anarchico” che li racchiude in una categoria difficilmente esaustiva dell’eterogeneità che rappresentano.
Dai ritratti schedati di uomini e donne, ragazzi e adulti, braccianti o intellettuali – scaricati dal peso di una biografia individuale – emerge il difficile rapporto tra i movimenti libertari e socialisti e lo stato monarchico dell’Italia liberale.
Completano il ritratto i moltissimi documenti, opuscoli, volantini e giornali di controinformazione che il movimento ha prodotto. A partire dai primi del Novecento A. Sander tracciò un ritratto della Repubblica di Weimar attraverso ritratti formali delle varie categorie sociali allora presenti. Tale fu l’ampiezza del lavoro da destare preoccupazione nei nazisti che lo censurano, non riscontrandovi l’archetipo dell’ariano. Contestualmente H. Lerski opera una ricerca simile ma il suo lavoro, caratterizzato da inquadrature strette e da una drammatica manipolazione della luce, rigetta la ricerca di un archetipo suggerendo che nulla possa esser desunto dall’apparenza.
Traendo ispirazione da entrambi i lavori, Broomberg&Chanarin ripropongono le medesime categorie sociali sugli echi di problematiche simili nella Russia di Putin, fotografando 120 cittadini di Mosca. Per farlo si servono di una tecnologia per il riconoscimento facciale in aree affollate progettata perché sia capace di ricostruire da un singolo frame una posa frontale senza la cooperazione del soggetto o che esso ne sia a conoscenza. L’effetto risultante è una totale spersonalizzazione dell’individuo ed i volti, ridotti a maschere fluttuanti, appaiono appunto come “pezzi di carne con due occhi” (come l’insulto in Yiddish Shtik Fleisch Mit Tzvei Eigen, titolo della loro opera).
Per resistere a quest’ennesima incarnazione high-tech del panoptismo, macchina che secondo la definizione di Foucault permette di dissociare la coppia vedere-essere visti, la soluzione proposta è quella di sottrarre la propria immagine attraverso l’uso di uno strumento semplice come il balaclava, il passamontagna icona delle Pussy Riot di cui Y. Samutsevic non a caso è chiamata a interpretare il ruolo del Rivoluzionario.
Fotografia. Festival Internazionale di Roma (XIII edizione) – Portrait
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children
La XIII edizione del festival è dedicata al Ritratto, inteso non solo come genere che ha accompagnato la sin dall’inizio la storia della fotografia, ma anche come strumento d’analisi della società contemporanea.
Il tema del ritratto viene affrontato ricostruendone il percorso storico e il ruolo all’interno dell’arte contemporanea, della letteratura e del cinema, sottolineando l’interdisciplinarietà che lega la fotografia ai campi di studio antropologici, filosofici, sociologici e semiotici.
E’ possibile ricercare nel ritratto i diversi significati della rappresentazione fotografica intesa come strumento di conoscenza dell’altro. Allo stesso tempo si può indagare il rapporto che si instaura tra individui e collettività e i processi che, attraverso la fotografia dell’altro, permettono la rappresentazione del proprio io esteriorizzato in opposizione o in alternativa all’autoritratto.
Si rifletterà, infine, sul rapporto che lega la fotografia e la tecnologia ed in particolare su come le ultime rivoluzioni digitali stiano influenzando le modalità di rappresentazione e la pratica fotografica, fino a diventare tema intrinseco dell’opera d’arte.
La mostra principale è una collettiva composta da autori selezionati e suggeriti da fotografi, curatori, critici e direttori di musei di rilievo internazionale che hanno collaborato alle precedenti edizioni del Festival.
Anche in questa edizione il Festival vede il coinvolgimento di Accademie straniere, spazi istituzionali e gallerie private che ospiteranno diverse mostre.
Prosegue anche la tradizione di un ritratto inedito della città con la dodicesima “Commissione Roma”, così come gli spazi dedicatati alla giovane fotografia italiana, con la terza edizione del Premio Graziadei e la Call For Entry.
Ritratti dalla collezione Trevisan
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children.
La mostra dedicata alla collezione di Mario Trevisan rappresenta la prima forma di collaborazione ufficiale istituita tra FOTOGRAFIA-Festival Internazionale di Roma e una raccolta privata, a sancire il riconoscimento del ruolo fondamentale ricoperto da questo tipo di collezionismo nella costruzione di una storia della fotografia e di una memoria condivisa del media. La collezione si presenta come un corpus enciclopedico in continuo accrescimento, che comprende oggi oltre 200 tra gli autori più importanti.
Un percorso completo e variegato, che tocca in modo omogeneo le molteplici tappe dell’evoluzione del linguaggio fotografico, dalle sue origini fino ai risvolti più recenti, confermando la lungimiranza delle scelte del collezionista, orientate da una consapevole inclinazione scientifica cosi come dal gusto personale.
L’impronta del Surrealismo francese – una delle prime correnti a utilizzare la fotografia in modo autonomo – e delle sue ripercussioni in ambito statunitense, connota fortemente gran parte delle opere della raccolta, spesso caratterizzate dalla ricerca del paradossale, dell’onirico e del fantastico nascosti nelle pieghe della quotidianità.
La collezione, che si sviluppa ampiamente nelle sperimentazioni ottocentesche, fino ad arrivare alle ricerche internazionali a cavallo dei Duemila, è presente al Festival con una selezione dedicata al ritratto, genere condiviso storicamente con altre discipline artistiche, ma la cui evoluzione ha conosciuto in ambito fotografico esiti sorprendenti.
PORTRAIT. Collettiva
Il festival è promosso dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, co-prodotto dal MACRO e Zètema Progetto Cultura con la direzione artistica di Marco Delogu.
Con la partecipazione di: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici; Accademia Tedesca – Villa Massimo; Azienda Unità Sanitaria Locale Roma E – Santa Maria della Pietà; IIla; MiBAC; ICCD – Istituto Nazionale per la Grafica – Museo Arti e Tradizioni Popolari; Officine Fotografiche – Emerging European Talents; Palazzo delle Esposizioni; Forum Austriaco di Cultura; Studio Legale Graziadei; GQuadro Advertising; Save The Children
Immagine: Oleg Videnin, Wheel, Bryansk region, 2007
La mostra, cardine sul quale orbiterà il tema della XIII edizione di FOTOGRAFIA. Festival Internazionale di Roma, è una collettiva composta da autori selezionati e suggeriti da fotografi, curatori, critici e direttori di musei di rilievo internazionale.
In particolare Maria Alicata (curatrice e storica dell’arte), Antonio Biasiucci (fotografo), Francesco M. Cataluccio (scrittore), François Cheval (direttore del Musée N. Niepce), Alessandro Dandini de Sylva (fotografo e curatore), Stefano De Matteis (antropologo), Franz Koenig (editore), Per Lindström (critico e curatore), Giuseppe Lisi (saggista), Danilo Montanari (editore), Gil Pasternak (professore De Montfort University), Sandra Philips (curatore Fotografia SFMoMA), Bartolomeo Pietromarchi (direttore della Fondazione Ratti), Carolina Pozzi (curatrice), Leo Rubinfien (fotografo, curatore e saggista), Hans-Christian Schink (fotografo), Marta Sironi (storica dell’arte), Alec Soth (fotografo), Valentina Tanni (curatorice), Mario Trevisan (collezionista) e Paolo Ventura (fotografo) hanno selezionato i lavori di Antonio BIASIUCCI, Martin BOGREN, Piergiorgio BRANZI, Asger CARLSEN, Alexandra CATIERE, Doug DUBOIS, Bernhard FUCHS, Ingar KRAUSS, Zanele MUHOLY, Antonia MULAS, Arthur PATTEN, Jon RAFMAN, Thomas ROMA, Assaf SHOSHAN, Guy TILLIM, Andrea VENTURA, Paolo VENTURA e Oleg VIDENIN.
Harmonic Motion / Rete dei draghi – ENEL CONTEMPORANEA 2013
Installazione site specific realizzata dall’artista giapponese Toshiko Horiuchi MacAdam. Un’opera interamente realizzata e intrecciata a mano, dal sapore tradizionale che rievoca l’antica lavorazione all’uncinetto abbinata a forme contemporanee dai molteplici colori, sospesa nella grande Hall del Museo, a rappresentare un ideale fil rouge tra l’edificio storico e l’area museale progettata dall’architetto francese Odile Decq. Un’installazione dove poter entrare, saltare, rotolare, arrampicarsi, strisciare, rimbalzare, oscillare, appendersi e muoversi attraverso livelli successivi, per vivere un’esperienza sicuramente insolita.
Enel Contemporanea 2012. Big Bambú
MACRO Testaccio
Gigantesca installazione appositamente realizzata dagli artisti americani Mike e Doug Starn negli spazi del MACRO Testaccio, in occasione dell’edizione speciale 2012 che celebra ii 50 anni di Enel. L’opera, è una grande scultura-architettura alta 25 metri e composta da circa 8.000 aste di bambù.
L’opera “Big Bambú” è un’opera d’arte contemporanea molto particolare, una sorta di architettura parzialmente percorribile che, come un organismo vivente, si relaziona con la presenza del visitatore al suo interno.
L’Opera è un’installazione dell’altezza di 33 metri dal suolo, costituita interamente da canne di bambù di varie dimensioni, allacciate e fissate tra loro da apposite corde, che comprende una parte calpestabile dai visitatori, fino ad un’altezza massima di 20 mt da terra, grazie ad una scala a doppia elica ed ad una rampa a spirale.
L’Opera presenta inoltre al suo interno due aree d’interazione a circa 14-16 mt al suolo, con una portata di 10 persone ognuna e da una sorta di mini auditorium che, a 5 mt dal suolo, permetterà di vivere lo spazio e stazionare (con una portata di 20 persone alla volta).
I visitatori devono scrupolosamente attenersi alle indicazioni e alle prescrizioni del Regolamento di Accesso all’Opera e a tutte le altre fornite dal personale autorizzato.
Durante l’accesso all’Opera i visitatori sono comunque tenuti ad osservare la massima prudenza per l’incolumità della propria persona e di tutti i soggetti minori e/o diversamente abili eventualmente accompagnati, impegnandosi a mantenere un comportamento corretto e rispettoso, facendo altresì attenzione a non mettere a repentaglio l’incolumità di terzi.
I visitatori devono indossare scarpe adeguate, di preferenza chiuse e con suola di gomma.
Considerato che la parte percorribile dell’Opera presenta delle asperità dovute alla forma naturale delle canne di bambù e delle protuberanze delle loro giunzioni, ai visitatori è richiesta una particolare prudenza. Allo stesso modo si consiglia ai visitatori di fare attenzione all’ambiente circostante salendo e agli oggetti che potrebbero accidentalmente cadere assicurandosi di chiudere, ove possibile, borse e tasche in quanto eventuali oggetti in caduta libera possono essere un pericolo.
E’ vietato l’accesso all’Opera nel caso in cui ricorra anche solo uno di questi casi:
– in caso di pioggia, vento forte, neve o altre intemperie tali da non consentire un accesso a condizioni ottimali a discrezione del personale autorizzato; sarà ugualmente vietato l’accesso all’opera quando gli appoggi in elevazione presenteranno condizioni di rischio scivolamento (es.gradini bagnati).
– a soggetti che si trovino sotto l’influsso di alcool, droghe o altre sostanze psicotrope;
– a soggetti che non abbiano firmato e riconsegnato la liberatoria reperibile presso la biglietteria all’ingresso;
– a soggetti privi del timbro di riconoscimento destinato ai visitatori;
– a soggetti privi di idonee calzature (ad es.: tacchi alti, piedi nudi, infradito, ecc.);
– a soggetti armati o muniti di oggetti contundenti;
– a soggetti il cui comportamento sia violento, irrispettoso o indecoroso.
– a soggetti incapaci di muoversi autonomamente ma abbisognanti di ausilio (stampelle, sedia a rotelle, …) e soggetti con deficit visivi gravi se non accompagnati da cane guida.
E’ vietato fumare all’interno dell’Opera.
E’ vietato gettare oggetti dall’alto.
Si consiglia di non accedere ai piani superiori dell’Opera a:
– persone che soffrono di attacchi di panico, crisi epilettiche, problemi di equilibrio e/o deambulazione, problemi respiratori, tachicardia, vertigini, nausea;
– donne incinte e persone di peso superiore ai 180 kg;
– persone che soffrono di patologie tali da mettere a repentaglio la propria e altrui incolumità.
Ai visitatori è consentito effettuare riprese fotografiche e audiovisive unicamente ad uso di ricordo personale.
I trasgressori del Regolamento verranno allontanati dall’Opera.
IL MUSEO E GLI ORGANIZZATORI DECLINANO OGNI RESPONSABILITA’ PER DANNI A PERSONE E/O COSE DERIVANTI DA COMPORTAMENTI NEGLIGENTI O IMPRUDENTI DURANTE LA VISITA, O COMUNQUE NON CONFORMI AL REGOLAMENTO.
Tempo di permanenza all’interno dell’opera: 15 minuti
In caso di pioggia, vento o di condizioni meteorologiche avverse, l’installazione non sarà accessibile al pubblico.
Ingresso gratuito.
L’accesso e lo stazionamento da parte dei visitatori nello spazio percorribile, è contingentato dal personale autorizzato.
L’Opera è posta sotto sorveglianza video e, pertanto, i visitatori saranno filmati durante il percorso.
I visitatori devono indossare scarpe adeguate, di preferenza chiuse e con suola di gomma.
L’accesso all’installazione richiede la firma di una liberatoria.
L’accesso all’Opera è consentito unicamente ai visitatori che abbiano firmato la liberatoria reperibile presso la biglietteria di ingresso e a cui sia stato rilasciato il timbro di riconoscimento destinato ai visitatori, la cui ricezione comporta l’accettazione integrale e incondizionata del Regolamento di Accesso all’Opera.
I minori sotto i 12 anni di età e i diversamente abili, devono essere accompagnati dai genitori o chi ne fa le veci, che ne saranno esclusivamente responsabili; l’accesso sarà consentito previa firma della liberatoria, sia da parte del visitatore sia da parte dell’accompagnatore. In particolare i minori di 10 anni o comunque di altezza inferiore al 1.2 mt dovranno essere controllati a vista.
Tutti i minori di 18 anni dovranno far apporre alla firma della liberatoria anche la firma di un genitore o di chi ne fa le veci, anche se potranno salire da soli.