Una conversazione con Lisa Ponti
di Luca Lo Pinto
Pubblichiamo qui di seguito la conversazione tra Luca Lo Pinto e Lisa Ponti (1922-2019) protagonista della mostra Il disegno di una mostra, ospitata nella sezione ARITMICI (7 luglio 2022 – 30 ottobre 2022). L’intervista è inclusa anche nella monografia Lisa Ponti, Io sono un disegno edita da Humboldt Books che approfondisce una personalità costantemente coinvolta e in relazione con i nomi di spicco della scena artistica internazionale.
Ho incontrato Lisa Ponti per la prima volta nel 2012 nella sua casa di Milano per registrare la conversazione che segue. Incontrare e scrivere di persone come Lisa Ponti è un privilegio che va di pari passo alla difficoltà di sottrarsi a un’ovvia ma meritata celebrazione, soprattutto quando si ha a che fare con chi la rifugge con sincera modestia. Figlia di un gigante dal nome pigmeo, la vita di Lisa è inscindibile da quella del padre Gio, grazi e al quale intraprende una lunga avventura scandita da tanti incontri e affinità, le due parole chiave che riassumono la sua esistenza. Dagli anni Quaranta, da Stile a Domus, Lisa è stata una compagna di viaggio per gli artisti di almeno quattro generazioni. I suoi modi, la sua eleganza e il suo umorismo sono tipici di quella borghesia milanese illuminata oggi svanita. Gli scritti di Lisa sono il ritratto dei suoi incontri, irradiati dalla luce della poesia e dell’arte e imbevuti del linguaggio degli artisti, non della critica. La sua modestia l’ha portata ad avere la sua prima mostra come artista a soli settant’anni. Lisa ha disegnato scrivendo e scritto disegnando su fogli A4 con risultati mira-bili. La brillantezza del suo pensiero e la sua generosità intellettuale oggi appaiono rivoluzionari. Per questa ragione, abbiamo bisogno di persone come Lisa Ponti!
LLP: Ho talmente tante domande da farti che non so da dove partire… Le prime volte che ho sentito il tuo nome è stato attraverso alcuni artisti come Emilio Prini e Luigi Ontani, che mi hanno parlato di te come una vera compagna degli artisti. Successivamente ho conosciuto Franco Toselli che mi ha confermato la tua importanza. Franco mi ha mostrato i tuoi bellissimi disegni.
LP: Ho avuto la fortuna di lavorare alla rivista Domus con un padre come Gio Ponti che diceva “Fai tu”. Lì è stato bello. Le cose erano pubblicate liberamente, si conoscevano le persone, si stava insieme. È stato un lungo periodo, bellissimo. Sono stata molto fortunata perché ho incontrato tante persone straordinarie. Millo [Emilio Prini] ad esempio. Una volta andai a trovarlo con un artista desiderosissimo di parlare con lui, ma lui non volle vederlo. Questo poverino, giapponese, se ne andò via in punta di piedi.
LLP: Eravate a Milano o a Roma?
LP: No, viveva ancora a Chiavari.
LLP: Ho letto in un’intervista che la tua fortuna è stata negli incontri.
LP: Sì, è proprio così. Non sono una cacciatrice, né una scopritrice. Gli incontri arrivano. Basta non disturbarli. Come con Franco [Toselli].
LLP: Quando vi siete conosciuti?
LP: Nel 1967 Franco Toselli suonò il campanello di casa di Gio Ponti e disse “Sono Franco Toselli. Voglio aprire una galleria a Milano e vorrei inaugurarla con una sua mostra”. Gio Ponti, figurarsi, rispose “Evviva! subito! prepariamola!”. Una settimana dopo inciampa, cade e si rompe un femore. Manda a chiamare Franco e gli dice “Senta Toselli, cominci con qualcun altro perché io qui ne ho per mesi”. E Franco Toselli rispose “Ma io aspetto”. Una frase tuttora indimenticabile. La grande bravura di Franco è stata organizzare la mostra di Gio Ponti senza farsi ingabbiare da lui. Essendo architetto, designer con trecentomila idee, poteva riempire la galleria delle sue trecentomila idee. Franco immediatamente si è staccato da Gio Ponti. Ponti ha poi saputo che se si andava da Toselli si vedevano per esempio i piatti di cartone di Alighiero Boetti. Gio Ponti ha subito una scossa dall’aver conosciuto Franco.
LLP: C’è stato un incontro tra Boetti e gli altri artisti di quella generazione con tuo padre? Leggevo che a casa vostra transitavano tantissimi artisti, da de Chirico ad Arturo Martini…
LP: Beh sì, più quella generazione lì. Arturo Martini soprattutto era l’artista del cuore. Le mostre di Franco erano speciali, completamente segrete e non ci veniva nessuno. Alighiero aveva prodotto una pila di piatti di cartone, un qualcosa di sorprendente per quell’epoca. In una galleria non era mai stato fatto. L’unica altra galleria con le antenne frequentata da Ponti era la galleria Apollinaire di Guido Le Noci in via Brera dove aveva esposto anche Yves Klein. Le Noci era uno bravo, isolatissimo a Milano.
LLP: In galleria da Toselli è cominciato anche il tuo rapporto con tutti questi artisti?
LP: Ho avuto la fortuna di lavorare con la rivista. Ogni mese erano tante le pagine con le quali improvvisare, commissionandole agli artisti, realizzandole insieme. Domus era distribuita in tutto il mondo, nei punti più sensibili. È stato un mezzo magnifico. Sono stati numerosi sia gli artisti che gli architetti ad aver realizzato lavori appositamente per la rivista.
LLP: All’inizio ti occupavi di tutta Domus o solo della sezione legata all’arte?
LP: Facevo la redattrice generale.
LLP: Negli anni Sessanta?
LP: No prima, già alla fine degli anni Quaranta. Quando la direzione passò da Ernesto Nathan Rogers a Gio Ponti per un dissidio di editori. Allora Ponti mi portò dentro. Venivo dall’esperienza della rivista Stile.
LLP: Stavo appunto per porti una domanda su Stile…La dirigeva sempre tuo padre?
LP: Sì, l’ha fondata e diretta. Sai che le riviste sono storie di amori, baci, gelosie tra direttori e editori? Ad esempio Stile era così. Ponti dirigeva Domus dal 1928. Gianni Mazzocchi, giovane editore e industriale, è stato bravo a far distribuire Domus industrialmente ma non ha mai pensato di trasformarla, concedendo totale autonomia. Era in grado di farla distribuire ovunque, perfino nelle Biblioteche di Stato a Mosca e Leningrado. Dopo un po’ di tempo litigarono perché Ponti voleva sviluppare una rivista più di arte che non di arredamento per signore. A quel punto è intervenuta una terza persona, Daria Guarnati con la rivista Aria d’Italia, alla quale Gio Ponti collaborò per alcuni anni. Voleva essere una rivista più libera, leggera, sullo stile di Minotaure. In seguito Ponti strinse amicizia con Garzanti, editore di larghe tirature, che disse “pubblico assolutamente una rivista come vuole Ponti”. Così nacque Stile.
LLP: Quindi era Garzanti l’editore di Stile?
LP: Sì. Mazzocchi era gelosissimo. È come se nel cinema Greta Garbo fosse andata a lavorare con la Metro Goldwyn Mayer dopo aver fatto i film con la Paramount. Stile è nata all’inizio della guerra e voleva essere la più bella ed elegante rivista italiana, perfino meglio di quelle francesi. Erano pubblicate le poesie di De Pisis, gli scritti di de Chirico che raccontava in modo molto ironico come dipingeva. Anche Arturo Martini aveva contribuito. Poi con la guerra andò malissimo.
LLP: Quindi già scrivevi per Stile?
LP: Sì, piccole cronache sugli artisti che mi piacevano come Usellini.
LLP: Chi erano gli artisti che seguivi?
LP: Usellini e quel genere di cose lì. Tutti italiani perché ero molto giovane e all’epoca non si viaggiava. Campigli è stato un amore familiare che in un certo senso abbiamo abbandonato.
LLP: Frequentava casa vostra?
LP: Sì. Campigli era un grande narratore, un ex giornalista diventato pittore su suggerimento della moglie, una bellissima signora rumena che si chiamava Dutza Radulesco. Abbiamo vissuto da lui per alcuni mesi. Cucinava nel suo grande studio, mangiavamo sul tavolo da ping pong e ci raccontava delle sue avventure in guerra. Durante l’inverno passato insieme realizzò questo lentissimo ritratto di famiglia. Eravamo attratti da lui, dal suo personaggio, poi ci fu un po’ di distacco. Ad un certo punto infatti aveva abbandonato la sua bellissima Dutza e si era innamorato di una ragazza di Como, l’aveva sposata e la faceva vestire come la prima moglie con maglioni e bracciali d’argento pesantissimi. Io e mia sorella Giovanna ci stupimmo “ma cosa succede? Cambia donna e le trasforma tutte! È un prepotente!”. Poi ne trovò una terza e vestì anche lei allo stesso modo. Questo contribuì a raffreddare un po’ il rapporto.
LLP: Quindi Stile era una rivista con una partecipazione attiva degli artisti, come sarà poi Domus…
LP: Sì, assolutamente. Stile si esaurisce a causa dei bombardamenti. Non c’erano più gli stabilimenti e le persone non avevano più soldi per comprare le riviste perché le priorità erano altre. Era nata nel lusso con tante pagine, carte diverse… poi pian piano ha finito per essere stampata su cartaccia in bianco e nero con il rosso come unico colore. Ma era bella lo stesso. Era il taglio che contava. Le cose si possono fare anche senza mezzi. Anzi le riviste fatte con miserie funzionano benissimo.
LLP: Così a partire dagli anni ‘40 cominci a scrivere attivamente…
LP: Sì, Domus era passato a Rogers. L’editore Mazzocchi però aveva voglia di tornare con Ponti. Mio padre accettò ma a condizione che Rogers dirigesse Casabella. E così accadde.
LLP: Perché suo padre volle Rogers a Casabella?
LP: Questa è una cosa bellissima. Due uomini milanesi così diversi di carattere, destino, aspetto fisico erano diventati molto amici, quasi di nascosto alle rispettive redazioni, ognuna schierata per il proprio giornale. C’era una grande stima, anche se sul piano architettonico erano diversi. Rogers sosteneva la necessità di tenere conto della preesistenza ambientale. Ponti invece era per la creazione ambientale. Uno ha fatto la torre Velasca, l’altro la torre Pirelli. All’epoca i milanesi avevano cominciato a contrapporli. La Pirelli era considerata la struttura leggera volta al futuro, al contrario della torre Velasca che era considerata come la torre medievale. Ponti non sopportava che si riducesse tutto a questo. Ha difeso molto la torre Velasca. Erano diventati amicissimi tanto è vero che quando ci fu l’anniversario della morte di Rogers sono andata io a parlare. È bello quando accadono queste cose tra due “geni”.
LLP: Oggi sarebbe più difficile. C’è più individualismo. Negli ultimi anni l’arte è diventata una professione. Luigi Ontani dice sempre che non ha mai definito l’arte una professione. Oggi ci sono tanti impiegati dell’arte…
LP: Hai ragione…
LLP: Quando cominci a scrivere attivamente su Domus, quali sono gli artisti – dopo la generazione di Usellini, Campigli – verso i quali hai provato un’eccitazione o con cui è scattata una scintilla. Fontana ad esempio lo frequentavi?
LP: Fontana è stato un esempio di amicizia di sempre. A casa avevamo molte sue ceramiche stupende. Era un simpaticissimo genio, freschissimo, di carattere, di tutto. Il termine “spazialismo” ancora non l’aveva tirato fuori. Era un grande istintivo. Ti racconto un episodio. Nel 1951 fece il suo grande gesto con il neon nello scalone della Triennale. Ponti andò a vederlo e gli piacque molto. Così scrisse subito un pezzo su Domus affermando che Fontana alla Triennale aveva curvato un fulmine. Fontana rimase commosso e così gli mandò una lettera quasi bambinesca nella sua innocenza. Un’altra cosa divertente è che all’inizio non diceva “neon”, ma “neum”. Era una tecnica talmente nuova che la pronunciava alla milanese.
LLP: Domus fu quindi un mezzo che aiutò questi artisti a farsi conoscere…
LP: …sì. Era un’epoca in cui la gente viaggiava poco. La rivista è fondamentale perché, al contrario dei libri che non hanno immagini, ti riporta l’opera in istantanea, quasi in tempo reale. Domus, infatti, aveva un successo enorme in tutto il mondo. Anche se non era tutto tradotto, non importava. Arrivava subito. Così si sono viste le opere di Klein, Fontana e il suo passaggio ai tagli. È una rivista che ho ancora nel cuore in questo senso. In redazione eravamo quattro gatti e dovevamo riempire le cinquantasette pagine che componevano il giornale. L’editore Mazzocchi, un gentiluomo, pretendeva sempre che la rivista doveva finire a pagina cinquantasette nella data concordata. Arrivavamo sempre a pagina cinquantasette ma diverse pagine non le numeravamo così alla fine risultavano essere molte di più. Mazzocchi faceva finta di non capire. È stato un grande editore. Non hai mai intaccato la nostra autonomia.
LLP: Tra gli artisti dell’Arte Povera c’era qualcuno al quale ti sentivi più vicina anche a livello umano?
LP: Mario Merz. L’ho conosciuto attraverso Franco Toselli. Mario Merz è un sole, un grande. Toselli espose il suo famoso impermeabile grigio appeso. Mostre di cui nessuno si accorgeva. In Italia esiste il coraggio dei singoli, ma mai collettivo, della stampa, dei media.
LLP: Parlando di Merz mi viene in mente una tua bellissima frase “Prini primi dell’alba, Agnetti poeta, Mario e Maria Merz: da loro mi è venuto il massimo di luce”.
LP: Di Mario ricordo delle tante volte che andavamo a mangiare insieme bevendo tantissimo e diceva “abbiamo bisogno di uomini come Franco Toselli!”. Franco è il personaggio singolare, speciale, dell’Italia di quegli anni. Ancora oggi se non è convinto di una mostra non la fa. Magari alle sue mostre andavano in pochi, ma tutti erano attenti a quello che faceva.
LLP: Per tornare alla tua scrittura, ero curioso di sapere qualcosa in più del libro di favole pubblicato nel 1946 intitolato L’Armadio Magico.
LP: Eravamo sfollati in campagna e come sorella maggiore mi dovevo occupare di un fratello e una sorella piccola. Allora raccontavo delle storie partendo da quello che capitava, improvvisavo lì per lì per impegnare il tempo. A un certo punto mio padre mi esortò a buttare giù questi racconti. Nel libro il testo era accompagnato da alcuni bellissimi disegni di Ettore Calvelli. L’Armadio Magico è nato dalla libertà casalinga, non da un editore.
LLP: Guardando al libro di favole e ai tuoi disegni, ho il chiaro presentimento che sei una persona che ha sempre preso molto sul serio i bambini, il loro linguaggio e il loro modo di pensare… In questo senso mi fai pensare a Enzo Mari e il suo sincero rispetto per i bambini.
LP: Si assolutamente.
LLP: Anche se la prima mostra l’hai fatta a 70 anni, hai sempre disegnato?
LP: Sì. Facevo da braccio destro di Gio Ponti, che spontaneamente mi confinava alle arti decorative. Capitava ad esempio che dicesse “facciamo un piatto grande così con tante bandiere” e io ubbidivo. Con il padre c’è ubbidienza e disobbedienza, non la libertà! Per passare il tempo disegnavo favole usando le tempere su cartone. Ci stavo delle ore. Al contrario di quello che faccio oggi che disegno in un istante.
LLP: Ora disegni ogni giorno? È un’attività continua?
LP: Ho trovato questo sistema “industriale” di adoperare i fogli A4 che sono una misura standard e che in tutto il mondo non mancheranno mai. Ne ho qui delle pile. Mi sono imposta questo metodo dove sono obbligata ad adoperare il formato A4 che è universale. Non mi viene nemmeno la curiosità di provare su un foglio più largo.
LLP: Oltre al tratto, l’altro aspetto che mi ha colpito dei disegni è l’uso della parola. Sono delle filastrocche, brevi poesie. Per la tua generazione la poesia è stato un linguaggio vitale con il quale crescere, imparare, ma allo stesso tempo giocare…
LP: Le parole stesse che scrivo sono come disegni, alcune illeggibili prece scritte alla rovescia.
LLP: Quando dico poesia la intendo in senso ampio, come un modo di vivere l’arte in maniera poetica, affrontandola con una seria leggerezza. Penso ad artisti come Boetti, De Dominicis, Ontani…
LP: I miei disegni sono fatti proprio con questo spirito. Molti sono nati in questa casa.
LLP: Anche questa casa dove ci troviamo è stata un luogo di incontri come via Randaccio?
LP: Di meno.
LLP: La casa di via Randaccio la potremmo definire una Domus “dal vivo”…
LP: Beh, lì ci sono stata ottanta anni. È la prima casa disegnata da Gio Ponti. Lì abbiamo organizzato un numero sterminato di feste, riunioni, cene. C’era una cucina e una sala molto grande con tre tavoli che mettevamo in fila in modo che potessero starci una trentina di persone. Si mangiava tutti insieme, si brindava, qualcuno rimaneva a dormire. Alighiero (Boetti ndr), dopo l’incidente in macchina in Liguria, passò un mese in via Randaccio.
LLP: Com’era Alighiero?
LP: Magnifico. Era un generoso senza fine. Faceva tanti disegni e ne regalava come parlasse. Poi era incuriosito dalla vita e dagli altri. Guardava e leggeva. Era generoso anche con i pensieri e le idee. Ne aveva tantissime. Però non l’ho mai intervistato su Domus. Gli ho scritto una poesia per una mostra che hanno organizzato in Germania.
LLP: Non necessariamente il rapporto di condivisione con gli artisti si tramutava in qualcosa di professionale…
LP: Erano più rapporti umani che professionali.
LLP: Si percepisce nei tuoi testi. Non c’è quella distanza tipica della critica d’arte di quel periodo. Ti poni quasi sullo stesso piano degli artisti, riuscendo a cogliere anche aspetti meno visibili dei lavori. I tuoi scritti sull’arte sono tra le cose più belle che ho letto. Come questo su Ontani:
“Voglio parlare a mio modo (a suo modo) di Ontani, l’artista, l’equilibrista (lo imito da apprendista, maldestro), e dire che mi conquista vedere che non ha paura se il corno diventa una lingua, disnòda, la coda e in natura, parola pensiero figura, e si allaccia al caso la punta del naso. (Soltanto nei tempi dei tempi andavano i buoni staccati dagli empi).
Riposo.
Riposo e intervallo per raccontare la mostra, dove il Clown della Rosa, in veste di Cavaliere, dal giardino alla Villa, dai rami-corridoi varca le soglie delle otto stanze-foglie, ognuna dedicata. La stanza veneziana, e dell’autoritratto, degli oggetti pleonastici, dei mostri, gli androgini a due teste e le grottesche, tableau vivant e il gioco nella pittura, stanza delle stagioni, stanza del viaggio e omaggio… Un luogo di armonia, fuori c’è il parco, lo stendardo che oscilla, quasi foglia di ontano, sente il vento. Come le tende dentro. Il Millearti è a guardia dell’ingresso. Il Tappeto Volante è al primo piano, fuggiamo…1
LP: Questo è talmente ispirato che non mi riconosco come autore. È ispirato dall’artista. Non ho fatto nessuna fatica a scriverlo. L’ho scritto automaticamente. Ontani si è trasmutato in questo testo.
LLP: Un altro bellissimo è questo su Robert Mapplethorpe:
“Concentrazione, controllo. Le foto, poi, non si tagliano.
Basically, the idea is full negative. The act of taking pictures is exciting. You can’t crop.
I don’t have a preconceived image until I take it. Then I control.
Taking pictures, I learnt a lot about people but I don’t use this as a tool to get to people.
The photograph is an intimate event. Qualche foto a colori.
Ma che colori? Not random colours, etc…2
Mi ha impressionato molto questo tuo giocare con più lingue, passando con naturalezza dall’italiano all’inglese. Mi ha fatto pensare a Emilio Villa che amava sperimentare con lingue diverse. È sorprendente vederlo applicato su una recensione d’arte all’interno di una rivista comunque istituzionale quale Domus.
LP: Erano tempi fortunati e una serie di felici coincidenze. C’era Mapplethorpe, io che potevo scrivere in questo modo e una rivista che lo pubblicava.
LLP: Quando parli di Domus la definisci “una rivista fatta senza intermediari”.
LP: Sì, è importantissimo. È il segreto di Domus. Tutto nasceva dall’affinità tra le persone. È come se due antenne lontanissime si richiamassero. Questo portava a risultati inaspettati e uno rimandava a un altro. Io ad esempio sono stata in America e ho vissuto per un mese a casa di Charles e Ray Eames. Non è che fosse un programma. Ci sentivamo bene. Così ho visto da vicino il loro modo di vivere, di lavorare e di non lavorare.
LLP: Erano amici di suo padre?
LP: No. Amici miei. Mio padre era più anziano.
LLP: Come mai fu invitata a stare da loro?
LP: Erano associati con Alexander Girard che aveva fatto una mostra a Kansas City sulle statuine dei pueblo messicani. Girard mi disse “perché non vieni qui a Kansas City e ci incontriamo anche con Charles e Ray (Eames, ndr)?”. La cosa era talmente senza ragione che mi sono detta “perché no!”. Presi l’aereo direttamente Milano-Kansas City. Appena arrivata, vidi sia Ray che Charles con le rolleiflex al collo che scattavano in continuazione. Lì mi trovai nel pieno di una situazione mentale e artistica che loro mi hanno fatto conoscere.
LLP: Gli Eames li hai conosciuti in Italia?
LP: Sì. Charles era venuto in Italia per promuovere la sua famosa sedia e avevamo un po’ legato perché era un uomo di grande humour. Su Domus avevamo pubblicato la sua sedia con sopra una scialletta di Steinberg da vecchia zia. Questa cosa lo divertì e ci prese in simpatia. In seguito ci mandò una serie di fotografie della sua casa. Io scelsi quelle in cui la casa era talmente avvolta nella nebbia che non si vedeva! Disse “questi di Domus sono persone che si divertono”. Da lì mi invitò da loro, suggerendomi di vedere prima la mostra a Kansas City per poi andare a trovarli a Los Angeles. Quando uscii dall’aeroporto venne Charles a prendermi e mi accorsi che parlavano un inglese alla californiana che per me era incomprensibile. Mentre a New York con tutti gli europei che vi abitavano era come essere a Milano, lì nessuno sapeva né il francese né l’italiano. Parlavano solo questa lingua misteriosa. Ho vissuto con gli Eames dalla mattina alla sera seguendo la loro giornata. Lui stava lavorando alla realizzazione di un acquario per lo stato del Michigan e si documentava facendo lunghe ricerche e viaggiando molto. Mentre lavoravano, io giravo nello studio che era un capannone simile a quello di mio padre. Gio Ponti, infatti, non aveva uno studio con la porta, i corridoi e le stanze, ma un grandissimo capannone industriale, tutto aperto, con tanti tavoli dove si lavorava insieme. Naturalmente bisognava essere di buon umore altrimenti era facile irritarsi. Mi ricordo che facevano moltissimi film e musiche con film.
LLP: Come il celebre Powers of Ten.3
LP: Sì. Erano film didattici realizzati benissimo.
LLP: Alla Munari…
LP: Munari poverino aveva la smania di essere didattico. Lui, che era un mezzo genio, avrebbe potuto scatenarsi di più. Invece aveva la fissa della didattica e per questo motivo si tratteneva un po’.
LLP: Nel soggiorno a Los Angeles hai conosciuto Richard Neutra?
LP: L’avevo conosciuto a casa nostra a Milano. Veniva a mangiare da noi. Un grandissimo! Mi piacerebbe mostrarti quel numero di Domus in cui c’è un articolo di Sottsass – testa fina – su Neutra in California. Spiega benissimo come Neutra non c’entrasse niente con la California. È un austriaco puro. Lo dice così bene, alla Sottsass, che sarebbe bello ritrovarlo.
LLP: Tornando alla didattica mi interessava approfondire quello che dicevi degli Eames rispetto a Munari.
LP: Munari poverino è stato impedito da tante questioni cittadine, italiane, casalinghe dalle quali invece Charles e Ray erano liberi. Qui in Italia Munari era irretito da questa storia dell’arte applicata e della didattica. Racconto un episodio. La Triennale gli dedicò una mostra quando lui era già anziano. Nel sotterraneo lui aveva voluto preparare per i bambini dei grandi cartelloni bianchi con dei gessetti affinché loro potessero disegnarci liberamente. Mi ricordo che Munari scese giù in ascensore con la sala piena di bambini, i quali però avevano intuito che questi cartelloni un po’ rigidi potevano scivolare benissimo sul pavimento di linoleum come delle slitte. Quindi hanno totalmente battuto Munari. Lui pensava “vi regalo la libertà di fare un geroglifico”… Loro invece no, prendevano la rincorsa e scivolano come motoscafi nella sala vuota. Credo che Munari ne sia rimasto colpito. Certe volte i bambini fanno un salto più in là.
LLP: Quindi Munari l’ha conosciuto bene?
LP: Si veniva spesso a mangiare dai miei. Ne aveva tante di invenzioni carine. Una volta venne a trovarci e ci raccontò che era passato attraverso il parco dove c’era una casetta e aveva lasciato un appunto sulla porta “sono passato due volte e non c’eravate. Verrò ancora”. Faceva questo tipo di scherzi. A mio parere aveva – e questo dipende da Milano – questo vizio di sistematizzare, mentre gli Eames non sistematizzavano in quanto avevano dei grossi incarichi dall’industria per fare una data cosa e su tutto il resto si scatenavano a piacere loro.
LLP: Mi sembra che grazie alla tua lunga esperienza di Domus hai fatto da ponte tra il mondo dell’arte e il mondo del design…
LP: Per quanto riguarda l’arte, il vero contributo viene da Franco Toselli, che ci ha permesso di anticipare tante cose. Scriveva benissimo, anche se lo nega. Franco, come diceva Merz, era necessario agli artisti, aveva come un’antenna che gli permetteva di capirli.
LLP: Raccontami di Merz…
LP: Merz era come un essere di un altro mondo, astrale. Scriveva anche su Domus. Senza che l’editore se ne accorgesse, riuscivamo a pubblicare i suoi testi direttamente come ce li mandava. Scriveva a macchina spaziando molto le lettere. Testi bellissimi sull’infinito, sul cosmo etc… Era contento della possibilità di avere questo spazio. Gli piaceva scrivere. Gli veniva facile, faceva parte del suo comportarsi. Con Mario e Marisa ho avuto il piacere di condividere lunghe serate e cene senza né capo né in coda, di piena libertà. Non abbiamo mai stabilito un programma del tipo “posso venire a intervistarti e pubblicare su Domus?”. Il risultato veniva dopo.
LLP: Poco tempo fa ho intervistato Mario Pieroni che mi ha detto una cosa curiosa. Secondo lui le cene vanno organizzate prima delle mostre perché è dalle cene che nascono le mostre, non viceversa. Così nacque la prima mostra che fece con Gerhard Richter. In sostanza si tratta di iniziare un dialogo, un incontro, senza per forza sapere dove arrivare.
LP: Sono d’accordo.
LLP: Non a caso nel catalogo della tua mostra, in molte foto sei immortalata a tavola con gli artisti.4 Ho trovato una bella dedica da parte di Emilio Vedova: “Fra il Vedova e il Restany esiste un ponte per la figlia di Ponti”.
LP: Vedova era bravo, un grande personaggio. La parola magica di tutto e in particolare di Domus è “affinità”. Non ho mai avuto un intermediario. Se scattava l’affinità, tutto diventava facilissimo. Un esempio. Quando all’aeroporto JFK di New York hanno inaugurato il terminal della TWA disegnato da Eero Saarinen, ricevemmo le foto scattate da Charles Eames che era lì all’inaugurazione. Ovviamente non erano foto da ufficio stampa. Non abbiamo fatto nessuna fatica perché c’era un’affinità tra noi che nasceva da una questione di fiducia. La rivista era amata all’estero, anche se non leggevano i testi, vedevano il taglio delle immagini. Domus è stata un piccolo miracolo continuo. Io non mi muovevo da Milano, ma se ad esempio Tappio Wirkkala viaggiava, ci mandava sempre le foto. È lui che ci spedì delle bellissime immagini di Le Corbusier a Chandigarh, senza che io mi muovessi dal tavolo e che le pagassimo. Queste affinità facilitano moltissimo. Lo stesso vale per Ettore Sottsass che, quando era in giro per il mondo e trovava qualcosa che gli piaceva, ci spediva le foto.
LLP: Tra i tanti artisti che hai conosciuto e con i quali hai condiviso esperienze e avventure, Agnetti, Prini e Merz sono quelli, come dicevamo, verso i quali c’è stata una particolare affinità. Mi incuriosiva sapere quando hai conosciuto Emilio Prini.
LP: Da Franco. Fin dall’inizio ci fu una sintonia, ma soprattutto uno stupore per la sua assolutezza e la sua severità. Il punto è che lui ci deve essere e non essere allo stesso tempo. Un altro avrebbe detto “voglio essere in un punto visibile”; lui invece vuole essere in un punto quasi invisibile, però esserci. È anche importante il rapporto tra il suo lavoro e il luogo in cui è, un rapporto che lui magari nega. Ti faccio un esempio. L’opera che è riprodotta in fotografia in alto nella pagina 52 di un dato catalogo non è l’opera, ma la riproduzione fotografica a pagina 52 di un’opera che non è quella lì. In realtà è così, ma nessuno ci pensa. Lui invece vuole che ci si pensi.
LLP: Come definiresti il suo lavoro?
LP: Non è una cosa facile.
LLP: Personalmente più che “creare”, sembra “evidenziare” qualcosa che già esiste…
LP: Sì, lui segnala ed evidenza un qualcosa di non segnalato. Ma non lo fa per una facile contraddizione meccanica del tipo “gli altri lo ignorano, io lo segnalo”. Così sarebbe troppo semplice e lui non è semplice.
LLP: Hai visto la mostra a Strasburgo?5
LP: Sì. Mio figlio Salvatore fece le fotografie per la mostra e così andammo a tutti. Era un pezzo di lavoro di Emilio Prini. Bellissimo. C’erano due prue di barche verdi appoggiate al muro, parallele. Poi c’erano delle casse una sopra l’altra. Mi ricordo che si lamentava con gli operai perché non le montavano come voleva lui. Millo (Emilio Prini, ndr) vuole che le cose siano fatte in un certo modo e non tutti possono capirlo o realizzarle. In questo senso provoca anche reazioni negative, ma il suo essere così esigente fa parte del lavoro, è necessario.
LLP: Un’altra figura che mi interessa approfondire è Tommaso Trini. L’hai conosciuto bene?
LP: Per anni su Domus la rubrica “le mostre” era curata da Trini. Informatissimo, con molto garbo, molto bravo.
LLP: Qual era la sua peculiarità secondo te?
LP: Scriveva bene e sapeva che i suoi testi erano letti da persone di diversa provenienza. Non era autoreferenziale. Era sempre in ritardo in modo pazzesco sulle consegne, forse per un desiderio di perfezione. Anche la rivista Data è stata importante, che era conservata in pegno nel capannone di Agnetti. Vincenzo Agnetti è una persona che è sfuggita a tutti e che continua a sfuggire. Era un genio.
LLP: Ancora oggi sottovalutato…
LP: Ricordo di una conferenza che fece a Roma a Palazzo Taverna da Graziella Lonardi. Ad un certo punto disse “la giustizia è un’amputazione” mimandolo a gesti. Un giovane studente tra il pubblico si alzò e protestò chiedendo quale fosse il suo punto di vista politico. Agnetti si fermò, fissò con il suo sguardo celestiale il ragazzo e gli disse “parla con parole tue”. Questo ragazzo infatti non faceva altro che ripetere gli slogan del linguaggio politichese d’allora. Erano anni politici. Il giorno dopo fece una conferenza sull’arte alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna discutendo esclusivamente di matematica. Una ragazza si alzò chiedendo la ragione di questa scelta. Agnetti le rispose “perché? Tu vuoi vedere il sangue?”. Voleva far capire che si può alludere alla rivoluzione anche parlando di matematica. In generale per lui questi interventi pubblici rappresentavano delle sfide.
Durante l’inaugurazione della sua retrospettiva al PAC di Milano nel 1980, si distese a terra perché aveva bevuto. Beveva e piangeva spessissimo. Abbracciava piangendo anche i mercanti più duri. In quell’occasione lo portammo da me a via Randaccio dove avevamo organizzato un dopo mostra, ma, vista la situazione, mia sorella fece rispedire indietro tutte le torte. Tale era l’abitudine ad andare tutti lì che arrivarono comunque tantissime persone, anche se non avevamo più niente da mangiare. Agnetti stava disteso su un letto beato. Ricordo che venne in camera Alighiero Boetti e si parlarono sul serio, fatto raro tra due artisti. Rimpiansi di non aver avuto un registratore a portata di mano…
LLP: C’era un artista con il quale Agnetti aveva un rapporto speciale?
LP: Era molto amico di Piero Manzoni, più giovane di lui di qualche anno. Si sono scambiati molte idee. Entrambi bevevano molto con la differenza che Agnetti beveva il vino e vomitava, mentre Manzoni lo teneva su. C’era una sintonia particolare tra i due.
LLP: Curioso. Due lavori così diversi. Entrambi molto complessi. L’opera di Manzoni ha però un’apparente semplicità, una certa accessibilità in superficie, mentre Agnetti si manifesta più ostico.
LP: Sì, questo è vero. Agnetti poi era uno scrittore. Viene da li. Giocava sull’immagine e sulla scrittura dell’immagine. “Dimenticato a memoria” come il titolo del suo libro è una frase chiave. Le cose secondo Vincenzo sono “dimenticate a memoria”; come il cibo, si mangiano e diventano parte di noi trasformandosi in qualcosa di diverso. Un’altra sua caratteristica è la caduta. Lo ricordo più disteso a terra che in piedi. Era come avesse il senso di non riuscire ad acchiappare la realtà. Non a caso nell’ultima mostra che fece prima di morire – da Franco Toselli – visualizzò la sua caduta con quattro sculture e quattro fotografie. Il fatto di essere completamente a terra era la sua idea del mondo. Ne faceva di tutti i colori. Una volta si arrampicò vicino ad un lampione davanti alla finestra di via Randaccio o camminava come un equilibrista su una barra di metallo che sosteneva il soffitto del suo studio a via Macchiavelli 30. Faceva queste azioni velocissime e fisicamente rischiose. Lui e Piero Manzoni.
LLP: Ma Manzoni l’avevi conosciuto?
LP: Mai di persona.
LLP: E Castellani?
LP: Sì. Ma Castellani era uno controllato, con i piedi di piombo, bravissimo, rivoluzionario. Una persona molto conscia e precisa.
LLP: Luciano Fabro invece l’hai conosciuto bene?
LP: Sì, ma Fabro era misterioso. Aveva una chiave che non saprei descrivere. Era sorprendente, autonomo, libero, non tragico.
LLP: E Luigi Ontani l’hai conosciuto a Roma o a Milano?
LP: A Milano mi sembra. Lo ricordo sempre uguale, elegantissimo. Nella mia casa a via Randaccio c’erano sempre le sue valigie per i numerosi cambi. Incantevole, complesso. Ontani era perfettamente “compos sui”. Gentilissimo. Molto generoso, ospitale. Però… che bella gente!
1 Lisa Ponti, “Ontani alla Villa delle Rose” in Domus, n. 723, 1991, pp. 6-7.
2 Lisa Ponti, “Robert Mapplethorpe. I pre-fer silence” in Domus, n. 649, 1984, p. 73
3 Powers of Ten sono due brevi documentari scritti e diretti da Charles e Ray Eames. Entrambe le opere raffigurano la scala relativa dell’Universo secondo un ordine di grandezza basato su un fattore di dieci, prima espandendosi dalla Terra fino a rilevare l’intero universo, poi riducendosi verso l’interno fino a osservare un singolo atomo e i suoi quark.
4 Si tratta del catalogo della mostra In viaggio con Fontana, Gio Ponti, Boetti: il mondo di Lisa Ponti tenutasi a Milano presso la Fondazione Stelline nel 2005.
5 Si tratta della mostra dal titolo Fermi in Dogana presentata ad Ancienne Douane nel 1997.