PATRIZIA CAVALLI
Isabella Ducrot dice di sé stessa

Nel 2022, Quodlibet ha pubblicato Isabella Ducrot, Stoffe, volume che raccoglie la straordinaria collezione di tessuti dell’artista Isabella Ducrot (Napoli 1931). Questa raccolta comprende duecentocinquantadue tessuti che Ducrot ha raccolto nel corso degli anni, durante i suoi viaggi, nei mercati, dagli antiquari, nei grandi magazzini, sulle bancarelle dei villaggi e alle aste, dal Sudamerica alla Cina e al Giappone, passando per Francia, Tunisia, Marocco, India, Pakistan e Tibet, e copre un arco temporale che va dal IX al XX secolo. Una sorta di grande mappa che traccia le trame di questi tessuti attraverso i secoli e le geografie, offrendo un affascinante viaggio.

 

Ducrot ha dedicato gran parte della sua vita allo studio e alla passione per la storia dei tessuti, facendone il fulcro delle sue opere pittoriche e dei suoi scritti. La sua ricerca è sempre stata guidata dalla fascinazione per un artigianato specializzato, il cui prodotto non è considerato un’opera d’arte nel senso convenzionale.

 

Accompagnano la pubblicazione una serie di contributi, tra cui Isabella Ducrot dice di sé stessa di Patrizia Cavalli, che riflette sulla profonda connessione tra l’atto del tessere e l’umanità. 

 

Il testo è presentato anche nella mostra Il sospetto del paradiso dedicata a Patrizia Cavalli (30 maggio 2024 – 25 agosto 2024) che riunisce alcuni dei progetti editoriali nei quali Cavalli ha collaborato con artisti visivi o ha presentato scritti sull’arte: saggi per cataloghi di mostre, poesie o prose dedicate ad artisti o utilizzate da questi come evocazioni, edizioni limitate che prendono forma accostando parole e opere, tutte pubblicazioni nate da incontri e amicizie. 

Isabella Ducrot dice di sé stessa che è una collezionista di tessuti. Io dico che non è una collezionista di tessuti, o almeno non lo è più da due o tre anni, ossia da quando ha preso a scomporre la propria collezione, usando pezzi bellissimi di questa per ricomporli in nuove forme. Molte di queste composizioni se ne sono andate, regalate, vendute. Tanto basterebbe per farla uscire dalla categoria dei collezionisti. Ma, se è mai stata una di loro, a quale genere appartiene? Credo che non ci sia nessuno che, seppure per un periodo brevissimo, non abbia mai fatto una qualche minuscola collezione, per un incapricciarsi infantile e casuale. Questo genere di collezionisti, che è la maggior parte, è presa da amori improvvisi e frenetici, ma presto si annoia e dimentica la sua piccola e fulminea collezione per cominciarne subito un’altra oppure smettere, per sempre. Ma questi sono dilettanti. I veri collezionisti, quando hanno scelto la cosa o le cose da collezionare, continuano con costanza e devozione fino alla morte. Questo collezionismo sistematico e ossessivo ha sempre suscitato in me una specie di terrore. Esso, infatti, sebbene in apparenza sembri voler salvare dalla rovina e dalla dispersione il maggior numero di oggetti di una certa specie, riunendoli in uno spazio unico e presente, a me pare un esercizio funereo che vuole, in realtà, ridurre quante più cose possibili all’immobilità del possesso e del catalogo. Il collezionista assoluto, profittando della specializzazione, tende all’esaurimento del genere che egli colleziona; a lui preme soprattutto accumulare ciò che nel tempo e nello spazio si sparpaglia e, per uno strano paradosso, il suo voler possedere assomiglia a un annientamento. 

Questo collezionista guarda e ammira l’oggetto che vuole possedere fin quando non lo possiede, ma finalmente suo, non gli è più necessario guardarlo, perché ormai dentro, insieme alle altre cose. C’è, in infine, un’altra specie di collezionista che, amorosissimo, conosce bene quel che possiede e resta in sua compagnia: possiede appunto per poter guardare, toccare e annusare. È, questo, un collezionismo che si crea come un naturale e quasi inavvertito accumularsi di quel che, nel tempo, è stato acqui – stato e portato a casa. In questo senso, Isabella Ducrot era una collezionista. Ma perché non lo è più? Perché non ha continuato semplicemente a guardare i suoi tessuti, a mostrarli agli amici, a studiare come sono fatti e da dove vengono, a comprarne altri per accrescere la sua collezione e la sua conoscenza? Perché questo non le è più bastato? Perché, secondo me, era impossibile, perché è impossibile. Perché questo genere di collezionismo, che pretende di frequentare i propri oggetti, senza mai trascurarli, in un continuo e tenero esercizio di attenzione, è, di fatto, impossibile. Una collezione – chiamiamola così – di sto “e, per esempio, non è poi tanto dissimile da quella strana collezione di oggetti, per quanto eterogenei, che accumuliamo nelle nostre case. La prima è volontaria, la seconda è casuale, ma quel che poi accade è comune ad entrambe. Questi oggetti sono, di solito, inutili e lo sono diventati; sono stati, per qualche motivo, scelti o accolti e vivono insieme a noi; li tocchiamo per un po’ e li guardiamo, poi vengono inghiottiti dalla casa e ci si dimentica di loro. Ma via via, accumulandosi, conquistano uno spazio così grande che ci si accorge di una loro invadenza padronale. Non si possono usare, né più guardare, perché sotto l’anonimato dell’abitudine nascondono la presenza del tempo; né si possono gettare, protetti dal ricatto di una loro presunta memoria. Ci rubano la casa e restano lì, fermi, come parassiti immortali, di cui si può solo fuggire la vista: sono intoccabili e mostruosi, possono durare più di noi, possono sopravviverci. E se anche gli si cambia posto, ritornano immediatamente alla loro propria immobilità. E questa immobilità, questo scomparire all’attenzione sono tanto più enormi quando si tratti di oggetti, di sto “e, come nel nostro caso, creati per mostrarsi e muoversi insieme ai corpi che li hanno indossati, per macchiarsi o re – stare immacolati, per sciuparsi o anche essere distrutti. Ma comunque per l’uso. A questo genere di oggetti, se diventano collezione, accade che, nati per l’uso, l’uso stesso li sottrae all’uso trasfigurandoli. Guadagnano così una statura estetica, pur restando al tempo stesso ricettacoli di più o meno visibili tracce carnali. Chi raccoglie e ama questi oggetti è certamente attratto da questa loro natura ibrida, che li fa esistere come memoria del tempo fisico e come simulacri di sé stessi, e che fa sì che si abbia con essi un rapporto ambiguo, a metà tra la contempla – zione e la nostalgia. Ma ogni accumulo di oggetti, soprattutto se confinati a campioni della propria specie, tende a non farsi più vedere, a chiudersi in una immobilità intoccabile. E credo che anche Isabella Ducrot, per quanto abbia osservato a lungo, uno per uno, i suoi tessuti, per quanto li abbia studiati, immaginati, descritti agli altri, riposti e tirati fuori, piegati e dispiegati tante volte da ricordarli forse tutti, abbia avvertito, a un certo punto, un pericolo di congelamento, di assuefazione da possesso, tanto da dover creare per questi suoi tessuti nuove dimore, perché sopravvivessero, chiusi in un’altra immobilità, attraverso un’ulteriore e definitiva trasfigurazione. Perché infine si mostrassero, fuori dal catalogo, ricomposti secondo parentele segrete, note soltanto a chi li ha lungamente frequentati. Prima che ciò avvenisse, quando Isabella mi mostrava i suoi tessuti descrivendone le tante bellezze, io restavo indifferente e, di fronte a certe macchie superstiti di sudore e sangue o cibo, io provavo solo ripugnanza. Non mi interessavano le tracce crude della vita; né capivo perché lei si commovesse toccando una certa trama o un certo ordito. Né lo capisco ora. Continua la mia indifferenza per le trame, gli orditi e le cimose. Se vedo dei pezzi di stoffa, mi può colpire un colore o una morbidezza. Nient’altro. Ma quando ho visto i teli che Isabella Ducrot compone, distillando dalla sua ex collezione pezzi grandi e piccoli, quei tessuti, che prima passavano come una vana litania davanti ai miei occhi, si sono fatti vedere, senza manipolazioni, né camuffamenti, semplicemente disposti entro una geometria. Scelti e disposti, ma come se la scelta dei singoli pezzi contenesse già in sé il modo in cui disporsi, al punto che chi li aveva fisicamente composti sembrava soltanto una docile esecutrice. E in un certo senso lo era, perché al seguito della propria attenzione. Infatti quel che segna gli arazzi, i teli, i frammenti (potrei chiamarli in tanti modi) di Isabella Ducrot è soprattutto l’illusione di un equilibrio delicatissimo tra la materia che è già data in sé stessa e chi, di questa, ne accoglie le qualità per destinarle a una forma. Un equilibrio che chiede alle due parti di non far prepotenze, di mantenersi in un ascolto reci – proco, perché, se pure chi agisce è uno solo, possa sembrare un concertino. E grazie a quest’opera di illusione io vedevo le ruvidezze, i rammendi, le trasparenze, le macchie, le sfilacciature come qualcosa che dovesse esistere così come era, in quell’ordine e in quell’ordine soltanto, risuscitata per sempre in una forma, in un riposo dall’indifferenza. 

 


 

Patrizia Cavalli, Isabella Ducrot dice di sé stessa, in Isabella Ducrot, Opere 1982-1985, catalogo della mostra (Libreria Galleria Giulia, Roma, maggio-giugno 1985), Libreria Galleria Giulia, Roma 1985, pp. 3-5.