GASTONE NOVELLI
La parola a Gastone Novelli
1968
Criticato su più fronti, Gastone Novelli spiega le ragioni dietro la sua decisione di ritirarsi dalla Biennale del ‘68 e il perché, secondo lui, le posizioni del movimento studentesco contro la Biennale fossero sbagliate.
Pubblicato a fine 1968 sulla rivista “Che Fare” in un numero intitolato L’Autorganizzazione (testi teorici e collettivi dei movimenti di contraddizione in Europa), che raccoglie i contributi del Comité d’Action étudiants-écrivains di Parigi e dell’assemblea d’occupazione della Triennale di Milano, oltre ai resoconti e ai volantini delle contestazioni studentesche a Carrara, Londra, New York e Vienna. Preceduto dal Manifesto degli studenti, operai e intellettuali rivoluzionari per il boicottaggio della Biennale, l’intervento di Novelli spiega le motivazioni che l’hanno condotto a chiudere la sua sala alla Biennale di quell’anno, distanziandosi dalle posizioni degli studenti dell’Accademia di Venezia e dell’«assemblea per il boicottaggio della Biennale» istituitasi in quei mesi presso l’Accademia.
Data 29 giugno 1968
Pubblicato su “Che Fare” n. 4
Credo che sia utile chiarire i motivi che mi hanno spinto a rinunciare ad esporre alla 34a Biennale di Venezia, anche per rispondere a quella stampa reazionaria che si diverte a far passare questa azione per un gesto esibizionista o per «un atto rivoluzionario al quale un artista, che ha rapporti con gallerie commerciali, non ha diritto».
Questi giornali, e le teste di legno che vi scrivono, dimenticano che le opere sono anche il prodotto che permette all’artista di vivere. In una società borghese e capitalistica come la nostra, nessuno pretende che un calzolaio, se rivoluzionario, venda le sue scarpe in negozi di periferia, o che una scienziato rinunci alla ricerca per non servirsi dei mezzi fornitigli da una società che condanna.
Per questo, prima che si verificassero le attuali condizioni, l’invito ad esporre a Venezia era accettabile, anche se sono convinto che la Biennale sia un organismo superato e inutile. È infatti assurdo pretendere di allestire un periodico «museo delle ricerche» in corso, in primo luogo perché è assurdo presentare alcuni prodotti, arbitrariamente scelti, sperimentali, come dati di fatto, in secondo luogo perché la biennalità della mostra d’arte figurativa comporta salti di interi periodi della ricerca visiva contemporanea. Suppongo che non sia neppure possibile trasformare l’Ente, ma che sia necessario sovvertirlo, sostituire alla Biennale un centro di ricerca continuo nel quale possano sperimentarsi e realizzarsi tutte le esperienze che si conducono nel campo dei linguaggi figurativi.
D’altra parte, nel quadro delle attività culturali italiane, la Biennale non è certo la più provinciale, e per questa ragione, quando quest’anno si è profilato il possibile fallimento della Biennale, l’esplosione di gioia, da parte dei giornali borghesi e di quelli della sinistra classica, è stata unanime. Lo stesso Che Guevara scrive che non si fa arte manipolando le forme del passato, e che se oggi il linguaggio oleografico caro alla maggioranza della borghesia è anche quello ufficiale dei paesi socialisti, lo si deve al fatto che ciò che capiscono i borghesi è anche quello che capiscono i burocrati di partito.
Fare quadri è agire all’interno di un linguaggio, è ricerca di un universo possibile, e soprattutto non è una azione divulgativa; è politica perché è rifiuto del preesistente, o scelta, ma comunque ridiscussione. È vero che è incredibilmente difficile fare «doni spirituali» ai propri contemporanei perché le idee nuove uccidono il comodo, l’abituale passato, ma ogni freno imposto a ciò che è nuovo, che è ricerca, è anche un gesto antirivoluzionario, serve a limitare le possibilità future di conoscenza delle masse.
«L’assemblea per il boicottaggio della Biennale» riunita per quindici giorni all’Accademia di Belle Arti di Venezia, è fatalmente caduta in un discorso rivendicativo e settoriale e si è andata gradualmente svuotando, riducendosi ad essere composta in gran parte da artisti scontenti o esclusi e da studenti di una scuola ottocentesca, covo di ignoranza, come l’Accademia stessa. Sono state usate espressioni come «arte democratica», come se la parola «democratico» sancisse la validità di un linguaggio. Non sono state le istanze di quella assemblea a provocare la nostra decisione di non esporre.
Anche se sono totalmente d’accordo sulla necessità di rovesciare completamente le strutture di questa nostra società sbagliata, e sulla urgenza di modificare l’uomo stesso nei suoi bisogni e nei suoi interessi, escludo che questa operazione si possa iniziare attaccando una sovrastruttura isolata come la Biennale, cominciando la contestazione dai fatti dell’arte. Se si vuole che un’azione rivoluzionaria abbia un senso è necessario che essa sia diretta verso un punto nevralgico della società: la scuola, l’economia, la produzione, ed è necessario che questa azione sia sentita, mobiliti l’avanguardia operaia e studentesca.
Operai e studenti non sono intervenuti perché hanno riconosciuto, nell’obiettivo Biennale, un obiettivo di comodo per la D.C. e per un suo braccio di ferro con il P.C.I. che, mentre frena le rivendicazioni di fondo, ama assumere un ruolo rivoluzionario in una occasione limitata come questa, e distogliere così l’attenzione degli operai dai reali problemi di Venezia, Porto Marghera e Mestre.
Nonostante queste considerazioni sulle origini della contestazione e sulla validità dell’obiettivo Biennale, ciò che oggi rende impossibile ad un artista, che è anche un uomo, di esporre le proprie opere nel recinto della Biennale, è l’atteggiamento grottesco, autoritario e irresponsabile del Presidente, Sindaco di Venezia e del Segretario Generale prof. Dell’Acqua.
Il giorno della «vernice» a noi espositori è sembrato di entrare in un segretissimo centro di ricerche militari, tanti erano gli sbarramenti e tale lo spiegamento di forze di polizia, con trasmittenti, elmetti, manganelli e tascapani pieni di bombe lacrimogene. Questa atmosfera ha determinato l’immediata chiusura, in segno di protesta, del padiglione svedese, e delle sale di Kowalski, Schöffer, Dewasne nel padiglione francese, della mia e di quella di Perilli nella sezione italiana.
Nel pomeriggio, quei bene addestrati cani da schiavi, i celerini del II Battaglione Padova, con l’occhio iniettato di sangue ed il manganello in pugno, si sono lanciati in un folle carosello in Piazza San Marco, inseguendo dopo le cariche, illegalmente, i pochi dimostranti nelle callette e arrestando e manganellando indiscriminatamente 34 persone, fra le quali, impagabile idiozia poliziesca, due giornalisti svedesi e le loro mogli.
La mattina dopo, contro la violenza della polizia, chiudevano 18 delle 23 sale italiane, il padiglione polacco, e si ritiravano un artista iugoslavo, la scultrice venezuelana Marisol, ed uno dei due pittori danesi.
A questo punto gli organi direttivi della Biennale dovevano avere il coraggio di rinviare l’inaugurazione, almeno del padiglione italiano per due terzi vuoto per la mancanza delle mostre storiche, e nell’altro terzo con quasi tutte le sale chiuse dagli artisti. Ma gli organi, con totale disprezzo degli artisti e della loro opera, solo preoccupati di esercitare il loro potere, hanno inaugurato la Biennale con cinquecento visitatori e tremila agenti, Padiglione Centrale compreso, passando per le sale vuote.
Ora, a parte le violenze della polizia e i difetti della mostra, è chiaro che è avvilente e indecoroso per un artista prestare le proprie opere perché vengano esposte in una sede diretta dalle miserevoli persone che sono responsabili del clima assurdo e opprimente della XXXIV Biennale di Venezia. Io dubito che Favaretto Fisca o Dell’Acqua siano abbastanza onesti e sensibili da dimettersi dalle loro cariche dopo aver date così ampie prove di incapacità, ma spero anche che le manifestazioni dell’Ente Biennale vengano disertate dagli artisti più coscienti.
Gastone Novelli, La parola a Gastone Novelli, 1968
Published on “Che Fare” n.4
Extract from Gastone Novelli, Scritti ’43-’68, NERO, 2019