ALVIN CURRAN
Permesso di soggiorno, un’opera in vari atti
In occasione della mostra Hear Alvin Here, in corso fino al 17 marzo 2024, si propone di seguito un testo, estratto dal libro Alvin Curran: Live in Roma a cura di Daniela Tortora (Die Schachtel, 2010), in cui Curran racconta la sua storia e rapporto con la città di Roma, dove vive e lavora dal 1965.
«La sua capacità di combinare tensione di ricerca,
equilibrio con la natura e memoria della storia
è fondata su una profonda empatia con le
profonde necessità dell’animo umano.»
Francesco Martinelli su A. C., 1995
«Se non fosse per i tedeschi non avrei i soldi per far
festa con voi a questa tavola stasera. Se non fosse
per gli italiani lo stesso non sarei seduto qui, perché
non avrei mai imparato a far musica come faccio ora,
con vecchi stracci, calcina e destrezza di mano.»
A. C. al ristorante “il pompiere”, Roma, dicembre 2008
«Das Land wo die Orangen blühen» non è soltanto un problematico paradiso, è un mondo magico in cui tutti e tutto funzionano da sempre a energia solare, in cui vino, olio e arte sono interscambiabili. È una nazione in cui trucchi, approssimazione, improvvisazione, confusione, faccia tosta, teatro dei pupi, illegalità, anarchia e creatività convivono da buoni amici e ti permettono non solo di scendere un colle in macchina a marcia indietro, senza freni né cintura – figuriamoci poi la patente – fino a mettere sotto una suora sudanese ed essere poi perfettamente in grado di convincere le autorità che di tutto questo non è successo nulla. L’Italia è il cappello del prestigiatore da cui può uscire qualsiasi cosa. Il genio degli italiani sta nel saper navigare pazientemente e sicuramente attraverso le torture della settima bolgia (pietre, fuoco e merda) dell’Inferno di Dante e poi mettersi a sedere, «Grazie a Dio», per un tranquillo pranzo di famiglia in Borgo S. Frediano, a Trastevere o alla Vucciria.
Se nel 1964 Franco Evangelisti non mi avesse detto con queste parole «…ma caro Alvin, non lo sai che non c’è più musica da scrivere?» che la nuova musica come la intendevamo noi era morta, sa dio dove sarei oggi. Perché per quanto terrificante fosse questa assurda dichiarazione, ero un innocente principiante disposto a scommettere che Franco aveva torto, e presi il suo appassionato sermone come una sfida personale. Le parole di Evangelisti quasi tutti i giorni mi riecheggiano nella testa, in un vortice di polvere cosmica – deprimente e silenziosa, scintillante e propizia1. Fondando un paio d’anni dopo il Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza (contemporaneo del gruppo Musica Elettronica Viva), Evangelisti trovò la luce in fondo al suo tunnel e decise che la musica spontanea era meglio di quella composta, era così semplice! In quell’Italia prima del 1968 i suoi gesti erano drammatiche sfide artistiche, in cui c’era la stessa lotta tra la vita o e la morte degli ultimi atti di Verdi o Puccini.
E intanto io ero seduto nel mio primo appartamento, due stanze in cima a un palazzo di via della Lungara 42, a copiare lo spartito e le parti di Bun: For Orchestra di Cornelius Cardew, un brano di cui mi ricordo solo che era inquietante perché stranamente semplice. Cornelius era molto vicino a Evangelisti, e avevo ascoltato un suo concerto a uno dei primi festival di Nuova Consonanza, quando aveva evocato il meglio di Fluxus costruendo con grande cura un’alta pila di blocchi di legno da costruzioni per bambini per poi farla crollare alla rinfusa sulle corde sordinate di un piano. Non mi ricordo se era un pezzo suo, di Chiari o di Bussotti, poteva essere anche di La Monte Young. Anzi ora che ci penso doveva essere di George Brecht. Cardew era a Roma grazie a una borsa di studio inglese per realizzare l’improbabile progetto di studiare con Petrassi. Stette tutto l’inverno in una squallida stanza in affitto senza riscaldamento a piazza della Pace (oggi una delle zone più “in” di Roma, allora solo una stradina deserta e pericolosa). Ma la primavera era un glorioso mucchio di piselli freschi, fave, asparagi selvatici e cestini di erbe sconosciute (misticanza – mesculun, la sua pallida imitazione, è oggi popolare e coltivata dappertutto) che i contadini con il camion raccoglievano nei campi e per la strada. Nelle mie chiacchierate con Cardew incontravo per la prima volta la musica fuori del sistema – razionale, pericolosamente scombinata, legale, sovversiva e poetica tutto insieme – che arrivai a capire seduto sulle sponde del Tevere coperte d’erbacce guardandolo arrotolare sigarette di vario tipo. Io mi limitavo ad ascoltare; Cornelius non disse mai la parola rivoluzione, lui si limitava a personificarla, un grande artista di straordinaria modestia.
Via della Lungara 42 era di fronte al ponte Mazzini, vicino a Regina Coeli – la famigerata prigione di Roma. La vita sonora in quel quartiere proletario era tanto ricca quanto tragica. Al tramonto ogni sera sentivo un suono misterioso che veniva continuamente ripetuto a brevi intervalli – come una sbarra di metallo che venisse fatta correre o battere su un recinto – che scoprii poi essere il suono delle guardie carcerarie che facevano scorrere il bastone sulle sbarre delle finestre alla ricerca di un ronzio che tradisse una sbarra segata. E poi di notte piovevano dal faro degli argentini al Gianicolo voci disperate che chiamavano i nomi dei carcerati, tutti in stretto accento romanesco: «A’ Nardo!», «Aaa Frango!» – e questo andava avanti tutta la notte, in un sistema “telegrafico” dal vivo anarchicamente ordinato. Intere famiglie a un certo momento scambiavano messaggi con qualcuno, gridando ad esempio «La mamma è uscita dall’ospedale, sta bene…». Io registravo questi suoni commoventi e poi li ho usati anni dopo sia per il mio ritratto sonoro di Roma commissionato dalla Westdeutscher Rundfunk, Cartoline Romane, che per la colonna sonora che creai per il film Dentro Le Carceri.
In questo periodo iniziale in cui mi stabilivo a Roma incontrai anche Edith Schloss, una pittrice di New York originaria di Offenbach che aveva appena divorziato dal pittore e fotografo Rudy Burckhardt. Era arrivata in una nuvola di materiali infiammabili tra cui c’erano l’intero movimento dell’espressionismo astratto di New York, il Cedar Bar, Art News, il MOMA, la Art Students League e poi Balanchine Stravinsky i Carter Edwin Denby de Kooning Twombly Feldman Cage Brown Rothko Cunningham Pollack il suo amato Morandi e naturalmente “Piero” (della Francesca)… Ci incontravamo a piazza Navona dove a quel punto mi ero trasferito – una stanza in affitto nell’appartamento Kraber/North – e poi lei veniva con me al Luau Club, un bar decorato in stile falso hawaiano vicino a via Veneto, dove tutte le sere suonavo al piano A Foggy Day in London Town e All the Things You Are per poche lire più le mance degli ubriachi. Iniziammo una vita comune sulla mia Lambretta; erano tutte cose nuove per me. Edith divenne la mia guida, la mia porta sul Vecchio Mondo: mi insegnò a usare i miei occhi, a vedere, a entrare nelle chiese (sempre un po’ strane e paurose per ebrei ignoranti come me), a guardare i quadri come se fossero musica, a passare per piazza Navona e sbirciare Sartre e Simone de Beauvoir a un certo bar o a ammirare la fontana pre-futurista del Bernini nel bel mezzo della piazza. Mi insegnò a cucinare, leggere, accorgermi che c’erano gli uccelli, e a raccogliere erbe spontanee mentre cominciavo di mia iniziativa a registrare tutti i suoni ambientali nelle chiassose e indecifrabili strade romane. Quello che fece in sostanza fu di battezzarmi nel mondo dell’Arte. Grazie a lei la costa ligure intorno alla Baia dei Poeti divenne la mia scuola di musica – e composi alcuni dei miei primi brani nella casa di famiglia di Gina appollaiata sulla collina coperta di oliveti sopra La Serra. Creai una sinfonia intera solo con i suoni trovati dentro e intorno alla latrina all’aperto: calabroni, cucù, cigolanti porte di legno, pipì, claxon di lontani autobus, Edith stessa che cantava e fischiava mentre dipingeva, e il ronzio ipnotico della vasta baia giù in basso. Per bere cucinare e lavare tiravo su secchi d’acqua piovana dalla apposita cisterna in cantina; ascoltavo avidamente il folklore che circondava il semplice atto di fare il pesto con un mortaio di marmo e il pestello. Jacob, il figlio di Edith che sarebbe poi diventato regista cinematografico a New York, era il mio assistente al microfono quando andavo fuori a lavorare per registrare il suono dei film con Ivo Micheli, in Tunisia e Alto Adige. Ma Edith portò tante altre meraviglie alla mia attenzione, tra cui un paio di angeli, Patience Gray e Norman Mommens, che erano decisi a tornare alla natura nella madre mediterranea. Patience (come molti sanno) era una esperta scrittrice e orafa, e la sua cucina predicava il ritorno alla terra; Norman, un belga grande e grosso, scolpiva la vita, cercando i segreti arcaici dell’intaglio diretto nella pietra in artefatti proto-umani. La mia timida appartenenza alla bohème impallidiva negli studi a lume di candela e nelle latrine senz’acqua di questa ispiratrice coppia di poeti e alle tavole su cui Patience schiacciava incessantemente spicchi d’aglio, fosse alla loro casa sopra Carrara o nella loro riutilizzata ‘masseria’ vicino alla punta del tallone d’Italia, negli stessi canali in cui gli Dei greci nuotavano e scherzavano.
Immaginate questo: negli anni settanta in una piccola città sulla costa della Puglia (Molfetta?), dopo che avevo dato un concerto nella piazza, un vecchio dalla magnetica vitalità (forse un pescatore, un artigiano o un contadino) mi invita a sedermi sulla panchina di marmo accanto a lui. «Ti devo dire una cosa…», e quello che mi dice è una cosa che non ho mai dimenticato e non dimenticherò mai: «Io non lo so come la chiamate questa che avete appena suonato, non so nemmeno cosa sono quegli strumenti, ma volevo dirvi che per me… era musica, sì, musica…». Avevo capito che mi diceva questo non solo a nome suo ma anche a nome di tutta la piccola città, la cui arcaica ospitalità per un ospite completamente straniero era quello che voleva trasmettere. A quel tempo questo tipo di curiosità pre-industriale e di profonda etica contadina faceva dell’Italia, per noi che venivamo da fuori, una terra esotica di coloni colti – sapevano tutte le opere a memoria – e anche se questa tradizione e i suoi dialetti stanno morendo uccisi dalla forza bruta della TV e della vita contemporanea in generale, le sue memorie e i suoi ruderi continuano a venir fuori nelle opere delle avanguardie italiane, insieme ai riferimenti a Omero, Platone o Ovidio.
Di nuovo al Sud negli anni settanta, questa volta nella città di Potenza. Ci sono andato per dare un concerto. Le persone che mi hanno invitato, i fratelli Cappelli, mi vengono a prendere al treno e mi portano a dare un’occhiata alla sala del concerto, una piccola stanza non particolarmente affascinante. Metto a posto la mia attrezzatura, mi guardo in giro e chiedo, ma il piano dov’è? E loro «Piano?». Già, ho bisogno di un piano, sono sicuro che ve l’avevo chiesto. In un lampo si sparge la voce (questo accadeva molto tempo prima dei cellulari), e ben presto viene trovata una fortunata zia che ha un pianoforte verticale, poi un furgoncino Ape a tre ruote, e 6 studenti che si arrampicano fino al suo appartamento al quarto piano, trasportano il maledetto aggeggio giù per le scale, lo mettono sull’Ape, e alla fine lo mettono sul palco sbuffando e grugnendo. E in quell’istante capisco il meglio dell’Italia che risolve qualsiasi problema imprevisto, non importa la gravità, con una straordinaria e graziosa inventiva, come se questo piccolo inconveniente, che avrebbe potuto far saltare il concerto, fosse stato parte del programma! Naturalmente non ci siamo preoccupati di accordare il piano, e da allora ho sempre usato l’intonazione scolorita che questo dette alla mia musica.
La magia qui è dovunque, specie dove non te l’aspetti, ed è sempre incantevole, attraente e impossibile da decodificare completamente per noi stranieri. Una volta ho dato un concerto in pieno inverno vicino a Bologna in un tendone senza riscaldamento, in cui dovevo tenere i guanti per poter suonare il pianoforte, ma il pranzo che ci dettero in uno dei famosi ristoranti della campagna emiliana compensò ampiamente questo assurdo esperimento di ipotermia musicale. Invece in una notte di mezza estate a Mestre, vicino a Venezia, il suono dei miei sintetizzatori venne sommerso da 1000 cani che ululavano; i giovani scalmanati che occupavano quel piccolo stadio cercavano di buttarmi fuori dal palco a forza di urli – erano probabilmente venuti nell’illusione che io (Alvin Curran) fossi invece “The Alvin Curran”, uno sconosciuto gruppo rock. E continuavo a suonare in questo ridicolo stato di malintesa identità, chiedendomi che accidenti stavo facendo su quel palco? Chi ha messo su questa follia? E come torno a casa sano e salvo?
In una Palermo ancora sotto shock dopo la Winter Music di Cage, nel 1967, Teitelbaum e io dovemmo andare in missione all’ufficio del festival per farci pagare. Nessuno si preoccupò di avvertirci che intorno alla mezzanotte del 31 Dicembre Palermo è una zona di guerra, con vere pallottole che fischiano e rimbalzano da tutte le parti. Per arrivare vivi all’ufficio del festival ci buttammo a terra e strisciammo dietro le macchine in sosta. Quando tornammo alla Vucciria dove ritrovammo gli altri musicisti in una trattoria di bassa lega Michiko Hirayama salì sulla tavola, prese due bottiglie di Coca-Cola, cominciò a batterle insieme e cantò la canzone giapponese tradizionale per il nuovo anno, Carol Plantamura ci diresse in Auld Lang Syne, e Cage e Tudor e Chiari crearono una specie di spontaneo momento Dada che portò a un happening corale di tale intensità ululante che il giovane cameriere, terrorizzato, si tappò le orecchie temendo il crollo di soffitto e pareti. Nessuna altra nazione a me nota in quel momento, o che ho conosciuto dopo, offriva ogni giorno dell’anno instabilità, gioia e pericolo così memorabili, e certo non come sfondo per il mio personale rito di passaggio nella comunità mondiale della nuova musica. E mi sono dimenticato che intere vasche da bagno, gabinetti e armadi volavano dai balconi come coriandoli. Un mare di relitti da cui Edith tirò fuori una meravigliosa marionetta siciliana dipinta a mano, legno, spago e tutto il resto.
Mi trovai a sedere, in quelle prime estati, sotto un albero di fico ligure carico di frutti maturi sopra la Baia dei Poeti, a scrivere musica e a incontrare una dopo l’altra tante persone che emanavano saggezza, poesia ed esperienza pratica, dal regista Bernardo Bertolucci e suo padre, il poeta Attilio, a Bertolani il poeta-poliziotto del paese, a Lucio il cuoco che aveva il ristorante sulla strada che vide D. H. Lawrence passare con il suo pianoforte portato a dorso di mulo, agli Einaudi, al figlio di Ovidio, un giovane capitano di superpetroliere che fu arrestato per fumo, alla nostra padrona di casa Gina, una santa, ai contadini Iolanda e Giulio che litigavano al piano terra. Questa terra di nessuno familiare agli stranieri in Italia – un mondo di opposti, contraddizioni, affetti e amori senza radici, e beni culturali senza stato – ben presto divenne la mia e divenne me. Quando cominciai a sentirmi a mio agio con la lingua e le abitudini, legato ai Santi cristiani, ai ciclisti e agli eroi del calcio invece che al jazz, agli attori di Hollywood o ai giocatori di baseball, cominciai a sentirmi vagamente a casa anche nella vita di questa Italia che io stavo adottando e che mi stava accettando al suo interno. Non è mai stato facile, e anche per stranieri che hanno qui forti legami di famiglia, riuscire ad essere pienamente accettati da questo popolo, uno dei più ospitali e aperti al mondo, può sembrare impossibile. Molti di quelli che ci provano sul serio non ci riescono. Io non ci ho mai provato veramente.
La prima volta che entrai alla sede centrale della radio-televisione, la RAI, chiamata qui Mamma RAI e destinata ad essere nel corso degli anni uno dei miei principali benefattori italiani, ero con John Sebastian – un gentile virtuoso americano d’armonica, padre di John Jr. dei Loving Spoonful. Era il 1966, e dovevamo fare le prove insieme per andare in Africa con un tour organizzato dall’USIS del Ministero degli Esteri americano – un tour di una decina di Stati africani appena fondati che fu prevedibilmente tumultuoso, con diverse tappe che furono posticipate a causa di rivoluzioni. Si era a Natale, il solstizio d’inverno, il tempo di cercare un riequilibrio profondo in una continua festa di celebrazione della vita, dell’amicizia, della famiglia e di qualsiasi altra cosa da Dio a Dada. Lavorare in questo periodo è considerato un peccato mortale contro la società, una cosa che non si fa assolutamente. Pastori vestiti di pelli scendono nelle strade della città dai monti degli Abruzzi e suonano il loro arcaico minimalismo a sei note su zampogne fatte in casa fino a che non ce la fai più a sentirlo. Il consumismo di Santa Claus (compresi gli alberi di Natale) era ancora a quel tempo qualcosa di esotico che si vedeva nei film di Hollywood. Così agli studi di via Asiago – molto prima che installassero i metal detector e le tesserine magnetiche – il personale della RAI se ne stava al caffè interno bevendo whisky, grappa e prosecco, allegro e rilassato per tutto il giorno. A questa vista rimasi, da ingenuo, stupefatto: mi aspettavo di vedere una azienda radiofonica di Stato moderna ed efficiente e trovai invece una festa che andava avanti un giorno dopo l’altro mentre John e io provavamo Hovahness, Debussy, Mozart e Gershwin. Sembrava che ci fossimo solo noi due lì a lavorare.
E prima di rendermene conto mi trovai in Africa seduto di fronte a dei cantanti Tuareg che sembrava avessero in gola cartavetrata; ad ascoltare stupefatto impossibili melodie iterative suonate con la respirazione circolare su corti strumenti ad ancia doppia a una festa lunga ventiquattro ore per celebrare il ritorno dalla Mecca di un gruppo di abitanti del villaggio, e altre ventiquattro ore di tamburi per l’anno nuovo; a tornare in macchina dall’interno della Costa d’Avorio dopo un concerto e a fermarmi a un ristorante in mezzo alla giungla dove un cuoco genovese quel giorno aveva appena servito lasagne al pesto – tutto più difficile da credere di quello che si vede su National Geographic per questo pivello americano che gettava per la prima volta lo sguardo su questa tragica e straordinaria meraviglia creativa di un continente con un piede nella savana e un altro posato nel ventunesimo secolo. Quando tornai a Roma all’inizio di febbraio, volando sui venti di Scirocco che portavano dal Nord Africa la fine sabbia rossa del deserto, mi sentivo che, dio mio, la civiltà occidentale – perfino a Roma – è un mucchio d’insopportabile puzzolente marciume. Volevo tornare di corsa in Africa dove avevo trovato un tempo che si era fermato e una musica che non si fermava mai.
Qualche anno dopo nello stesso periodo festivo Michelangelo Antonioni prese a nolo uno studio per una settimana, ventiquattro ore al giorno tutti i giorni, insieme a una squadra di tecnici del suono dalle facce spesso contorte in smorfie, anche loro pronti ventiquattro ore al giorno tutti i giorni, per far registrare a Musica Elettronica Viva la musica per il suo primo film americano, Zabriskie Point… non so chi aveva parlato di noi ad Antonioni (forse da hippy americani sembravamo simili a quelli che i suoi attori interpretavano sullo schermo). Alla fine usò nel film soltanto tre minuti di tutto il nostro strillare, ma fummo entusiasti e felici dell’invito. Richard e io passammo un’altra settimana a casa di Antonioni seduti con un bravissimo assistente al montaggio con la sua moviola, sincronizzando il nostro rivoluzionario erotismo misto a provocatorio rumorismo con le eloquenti scene del maestro anche se, ci dissero su pressante richiesta della MGM, la maggior parte del nostro lavoro fu tolto e al suo posto andarono i Pink Floyd.
E improvvisamente un altro Michelangelo apparve dal nulla, Pistoletto; con il suo teatro di strada lo Zoo e con Simone Forti, poetessa e danzatrice di New York andammo in macchina a Torino dove il nonno del teatro d’avanguardia del dopoguerra, Giuseppe Bartolucci, ci aveva invitato tutti – MEV e lo Zoo – a creare una specie di happening per il famoso teatro Stabile di Torino. Successe tutto talmente in fretta che mangiai il mio primo piatto di tartufi freschi senza avere nemmeno il tempo di gustarli. Mi ricordo solo un mucchio di stracci puzzolenti, il pungente freddo di dicembre, dei grandi specchi – la brillante scoperta concettuale di Pistoletto, sudore, una pila di scarpe prese a caso, e le corde del bucato con dei lenzuoli stesi su cui venivano proiettate diapositive. La musica di questo evento fu totalmente spontanea, mai provata, con il sax soprano di Steve Lacy che fluttuava a strani angoli sopra le giungle di rumore grezzo amplificato che il pubblico radical-chic di Torino sembrava accettare come perfettamente adatto all’evento inquietante ma certamente ricco di tensione che loro probabilmente presero per rivoluzionario, e forse lo era davvero.
Un giorno suonavo On Top Of Old Smokey su un pianoforte verticale con i martelletti rinforzati da puntine da disegno per un mare di studenti ubriachi che mi accompagnavano in coro al Red Garter di Firenze nell’entusiasmo scatenato dall’orchestra di banjo dei Wilder Brothers; il giorno dopo ero con MEV per le strade di Parma insieme a migliaia di studenti in un chiassoso happening guidato da Jean-Jacques Lebel e dal Living Theatre, una pronta risposta al famoso teatro Regio (il teatro di Verdi, nella città di Toscanini) che aveva staccato la corrente a MEV prima di buttarla fuori non solo dal palco ma anche dalla porta posteriore del teatro. Come un sogno, questo evento tra protesta e teatro di strada fluttuò nel suo vigore ormonale fino ad arrivare a Venezia dove ricominciò il giorno dopo di fronte all’altrettanto famoso teatro La Fenice. Qui MEV con un semplice Crackle Box (una invenzione di Michael Waisvisz) e altri aggeggi portatili acustici ed elettronici dette gli otto giorni alla Biennale Musica di Venezia, e in particolare al maestro Pierre Boulez che era dentro a dirigere un concerto “borghese”.
Ma basta parlare di rivoluzione, prima di rendermene conto stavo registrando parti sintetizzate di tuba elettronica per una canzone di Gianni Morandi che doveva vincere il Festival della Canzone di San Remo del 1971 (credo); non vinse. Poi venne MEV2 – una colorata accozzaglia di utopisti italiani di Campo de’ Fiori, quasi tutti analfabeti musicali, che pensavano di poter prendere in mano qualsiasi strumento e suonarlo, cosa che facevano davvero; improvvisarono in modo incredibilmente brillante nella cripta di San Paolo entro le Mura – la Chiesa episcopale di Roma che ha sempre dato generosamente spazio a tanti artisti americani e italiani. A questo fece seguito una serie di colonne sonore che registrai su nastro per il meraviglioso teatro di Memé Perlini e Mario Ricci, la musica per i film di famosi animatori cechi e polacchi, e un interludio con la banda cittadina di Bomarzo – le sue statue mostruose possono essere famose in tutto il mondo, ma i musicisti della sua banda, in maggioranza cittadini, non sanno leggere la musica… e allora qualcuno mi spieghi come accidenti hanno fatto a imparare a suonare Stars and Stripes Forever di Souza, un bel po’ stonati sì, ma con la maggior parte delle note suonate in modo riconoscibile? Alla fine buttai via la mia musica, e dissi va bene allora suoniamo un po’ di cluster di note casuali, cosa che fecero come se avessero studiato con Varèse in persona… In quel periodo scrissi le canzoni per l’LP Il Bestiario di Maria Monti, la musica per una serie di drammi televisivi di Gianni Amico (i produttori della RCA erano arrabbiati che avessi lasciato fuori basso e batteria ma dovettero cedere al volere di Amico), e ancora colonne sonore per i film della bellissima e poetica regista femminista Annabella Miscuglio, e pubblicai il mio primo disco da solo con Canti e vedute del giardino magnetico, la cui musica mi portò nei primi posti delle classifiche della cultura alternativa e sulle pagine patinate del settimanale L’Espresso.
Nel 1973 l’occupazione da parte degli studenti dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica mi procurò nel ’75 un contratto di cinque anni per insegnare improvvisazione vocale di gruppo e preparare coreografie di corpi, spazi e suoni, iniziando una direzione musico-teatrale nel mio lavoro che portò a grandi progetti all’aperto come Maritime Rites. In che altro posto al mondo poteva succedere una storia così assurda? Giovani attori marxisti danno una cattedra a un compositore americano, potrebbe titolare un giornale. Cosa? In America non avevano neppure scoperto ancora la rucola, Alice Waters usava ancora The Joy of Cooking.
Nel pieno del periodo delle Brigate Rosse Giacinto Scelsi arrivò all’ashram del dott. Kaushik – un guru tipo Krishnamurti – vicino a Frosinone, e si fermò ad abbracciare un albero mentre stavo registrando il suono di una barca a remi nel lago. Quella notte uscii con il mio fidato microfono Sennheiser a canna di fucile per registrare i grilli; in pochi minuti fui fermato da tre uomini in un’auto senza contrassegni che dicevano di essere della polizia. Mi buttarono dentro e partimmo nel buio della campagna, e per fortuna arrivarono davvero a un commissariato di polizia in città dove mi interrogarono, trasmisero i miei dati via radio a Roma, controllarono le mie strane attrezzature di registrazione, e alla fine decisero che non ero un terrorista – mi riportarono perfino gentilmente in macchina all’ashram e quasi si scusarono per il disturbo, non mancando però di tornare il giorno dopo a interrogare tutti gli altri che stavano in quel manicomio di hippie. Quando nel 1988 Scelsi morì un gruppo numeroso di compositori italiani lo attaccò dicendogliene di tutti i colori, da dilettante a impostore. È quello che ti tocca in Italia quando non componi usando il temperamento equabile e per di più fai musica apertamente ispirata dalla cultura dell’Asia, e quel che è peggio diventi anche famoso a livello internazionale grazie a essa. Scelsi giaceva nella camera ardente, con qualche pelo di baffo non tagliato (i becchini non erano tanto attenti in quei caldi giorni d’agosto) che lo facevano sembrare un gatto, ma sereno e bellissimo in uno dei suoi splendidi cappelli indiani ricamati in oro e argento, nobile e visionario nell’aspetto come mai prima mentre la sua musica iniziava il suo viaggio verso l’immortalità.
Uno degli italiani più eccezionali che ho incontrato è M.T., un ingenuo appassionato di musica elettronica che viene dalla Ciociaria alla ricerca della verità. Nato in una cultura provinciale con forti radici contadine, non sapeva nulla di musica ma era convinto di essere un musicista. Musicista dilettante per antonomasia, ragazzo di campagna grande e grosso con nel cuore l’energia dell’avanguardia elettrica e il suo potenziale mistico, negli anni ha seguito le curve di crescita delle nuove elettroniche e alla fine ha ereditato il mio amato sintetizzatore Serge; è passato per il massimalismo e il minimalismo, e anche per il jazz e la musica latina grazie a una pocket trumpet elettrificata. Sfugge al suo isolamento culturale nella profonda provincia venendomi a trovare un paio di volte all’anno con la sua disarmante semplicità, la sua meravigliosa alterità soppressa, il suo vino rosso fatto in casa. Parliamo di musica, di Gurdjieff, di quando è andato a Konya a sedersi ai piedi dei dervisci, dell’Islam, e dei nostri comuni sogni di far migliore l’umanità.
Un altro ricercatore proveniente dalla provincia un giorno bussò alla porta per studiare con me: Stefano Giannotti da Lucca, intelligente, curioso, nervoso, chitarrista e compositore diplomato al conservatorio che aveva cominciato a provare un forte bisogno di creare panorami sonori come quelli di Luc Ferrari e miei. Non so cosa ho insegnato a Stefano, forse nulla, ma ha avuto un grande successo nel mondo tedesco della Klangkunst (Sound Art, Arte sonica), portando la sua cultura lucchese, una piccola città di grande fascino e fantasia, nei canali di arte radiofonica del mondo.
Non sai mai quello che può succedere in Italia. Una volta in pieno agosto montai sul treno da Roma a La Spezia. Visto che non c’erano posti liberi feci il furbo ed entrai nel vagone letto che era quasi vuoto. Lì trovai il cuccettista che mi disse «non preoccuparti, puoi stare qui a sedere fino a La Spezia, tanto la maggior parte dei passeggeri verrà a bordo dopo, andando verso Parigi…». Poi all’improvviso attaccò a conversare con me, iniziando con «Tu devi essere un artista…», «beh si, in realtà sono un compositore» (artista in italiano può significare appartenere a vari campi artistici). E lui: «Che tipo di musica fai?». Come al solito balbettai qualcosa cercando una risposta semplicistica: «Musica classica contemporanea… elettronica…» A quest’ultima parola rizzò le orecchie: «Aspetta, aspetta, vuoi dire musica elettronica»… pausa… «Ma conosci Alvin Curran?» e a questo punto con un gran sorriso dissi: «Io sono Alvin Curran». «Noooo?», disse cadendo quasi dal sedile. Sia benedetto l’infinito spettro di colori culturali degli italiani, in qualsiasi altro paese del mondo un musicista d’avanguardia sarebbe sconosciuto tra i lavoratori, ma ecco qui un controllore delle Ferrovie dello Stato che aveva messo me e la mia musica tra i suoi favoriti. Benvenuti a NovoItaliaGrad, nazione di contadini lavoratori e artisti che vivono insieme in perfetta armonia. Ed era effettivamente in questo periodo che il Partito Comunista Italiano, che in passato aveva organizzato concerti di Nono e Pollini nelle fabbriche, cominciava a sostenere con grande forza la musica sperimentale improvvisata, specialmente musicisti neri americani come Muhal Abrams, Anthony Braxton, George Lewis, Leo Smith, l’Art Ensemble of Chicago, e gli analoghi musicisti europei.
Altri incontri casuali: durante un concerto dedicato alla mia musica al Conservatorio dell’Aja, mi venne assegnato come assistente personale uno studente di nome Domenico Sciajno. Famiglia siciliana, nato a Torino, in fuga dal sistema dei conservatori italiani, Domenico stava prendendo un doppio diploma in contrabbasso e composizione (specializzandosi in elettronica) all’Aja. La sua presenza simpatica e super-competente rese particolarmente piacevole il mio soggiorno nella insipida capitale olandese e portò direttamente Domenico a diventare dopo il diploma prima per lungo tempo mio assistente musicale e poi collaboratore artistico. Adesso ha ripiantato le sue radici nella Palermo città natale di suo padre – una scelta di carriera davvero coraggiosa – Sciajno è diventato uno dei più importanti protagonisti della nuova elettronica italiana. Un cappuccino non previsto vicino al Pantheon di Roma con Massimo Simonini del Festival Angelica di Bologna portò a vari progetti, da TotoAngelica alla brillante produzione di Boletus Edulis, e un altro cappuccino con Klaus Schoening (fondatore dello Studio Akustische Kunst, WDR, Colonia) mise in moto la mia carriera europea di “radio-artista” con la serie Erat Verbum.
Un aspetto negativo della vita qui è che è normale essere fregati. È come beccarsi la cacca d’uccello nella stagione degli storni, spiacevole ma normale. Come quei tizi che si sono messi in tasca l’assegno del bilancio del programma RAI AudioBox destinato a coprire le spese del concerto per il trentesimo anniversario di MEV e sono spariti per sempre con qualche storia incredibile come l’aver dovuto pagare le spese dell’operazione di ernia del padre (Steve Lacy dovette pagarsi il biglietto d’aereo e il conto dell’albergo). O quella volta che una scemetta da galleria d’arte mi mette a suonare la tastiera dentro un’ambulanza parcheggiata sullo scalone del Palazzo delle Esposizioni… Il soggetto era “la farmacia” e certo mi ha fatto stare male nell’odissea lunga tre anni per avere il pagamento del mio modesto compenso. Una volta l’ho trovata mentre entrava in un negozio Roche Bobois per chiedere di un divano da 10.000 dollari; colta sul fatto, mi disse, «Ah, ti devo dei soldi, vero?» – mi dispiace tanto, te li mando domani. Domani non è mai venuto.
E quando davvero qualcuno tira fuori di tasca qualche soldo – per esempio per un concerto a incasso in un vivace ma squallido teatrino off/off/off a Trastevere – gli organizzatori mortificati ti informano dopo il tumultuoso applauso che qualcuno si è portato via dal tavolo tutto il gruzzolo raccolto, tutti e 37 gli Euro, sparendo nell’umida notte. Questa è una storia vera.
Parlar male dell’Italia, specie per noi induriti amanti di questa nazione, è un passatempo facile. La vita qui, anche se è piena di incontri inaspettati e spesso straordinari, è di rado come in Vacanze Romane – non quando ci vogliono 5 anni e 25 viaggi all’orribile Ufficio Immigrazione della questura per cambiare una miserabile lettera scritta male nel tuo nome, o ci vogliono mesi, e anche anni, per aggiustare una linea telefonica cronicamente disturbata per la quale al momento in cui scrivo stiamo ancora ansiosamente aspettando un intervento. Questa inefficienza da terzo mondo e l’apparente impossibilità di correggerla arriva spesso nei titoli dei giornali e nelle lettere dei lettori ai quotidiani italiani, e fornisce un argomento giornaliero di conversazione, come il tempo per gli inglesi… ma noi espatriati di lunga esperienza spesso arriviamo a: quando è troppo è troppo, ora basta!
Fantascienza al Lincoln Center di Roma: siamo stati recentemente all’“Auditorium” di Renzo Piano a sentir rovinare sonicamente un bellissimo concerto di Anthony Braxton e Roscoe Mitchell. Verso la fine, i tecnici del suono – Dio solo sa per quale motivo, perversa fantasia artistica, droga o problemi personali – hanno preso l’iniziativa di applicare lunghi delay circolari ad alto volume ed enormi riverberi da cattedrale alla musica perfetta nella sua acustica purezza di questi due straordinari improvvisatori. Alla fine del concerto un gruppo di spettatori più attenti ha circondato con rabbia e attaccato fisicamente i due idioti seduti al banco di regia. Non sono rimasto a vedere se è scorso del sangue o se era stato distrutto qualche apparecchio, ma la folla inferocita di esperti appassionati aveva, a ragione, perso la testa. L’evento raggiunse brevemente le pagine dei quotidiani, ma dato che siamo in Italia possiamo supporre che nessuno è stato licenziato e che nessuno ha chiesto neppure scusa. Dietro al palco Braxton, stupefatto ancor più del solito, chiedeva «Che accidenti facevano quei ragazzi alla nostra musica? Pensavo fossero arrivati i marziani. Ti dico io!».
In un momento di trasformazione nel 1987, grazie a una catena di eventi tra cui c’era battere Walter Zimmermann, andai a vivere in campagna non lontano dal tempio di Diana sul bordo del lago di Nemi, a 45 minuti da Roma. Insieme a me c’era Melissa Gould, un’artista concettuale di New York, appena uscita dal RISD di Roma, le cui idee e il cui lavoro catalizzarono il mio, con il risultato di varie importanti collaborazioni in quegli anni. Poggidoro e i suoi dintorni immersi nell’incanto del mito furono la mia casa per quindici anni e continuano a essere il rifugio del fine settimana. Dopo un anno nella villetta Pallenberg – costruita dai discendenti del pittore Boecklin dal febbrile romanticismo e poi servita in un’occasione come pied à terre dei Rolling Stones – mi sono trasferito accanto nell’appartamento sopra la casa di Remo e Teresa, una coppia a capo di una famiglia contadina che dopo la guerra vi aveva anche costruito una casa con vista a ovest su una striscia del mar Tirreno. Da loro ho imparato preziose perle di saggezza sull’orologio del mondo, sulle stagioni, su come vivere con quello che si pianta, sulla famiglia, sui tempi duri e sull’ovvia baggianata della cultura contadina. Il calore e la fiducia che sono cresciuti tra noi erano reciproci e durevoli come la normale aria di campagna. Ora non posso vivere senza.
Ci sono stati momenti in cui ho creduto di essere diventato italiano. Ve lo immaginate questo giudìo americano con una crescente fama di avanguardista da battaglia, un legame artistico e ispirazionale con la famosa scuola dell’Espressionismo Astratto di New York e il suo nuovo, rinvigorito, minimalismo metropolitano, membro fondatore di MEV, protagonista nelle catacombe teatrali di Giulio Cesare nel pieno della incalcolabile tragedia del Vietnam completa di confessione Frost/Nixon da 300.000 dollari, in moto verso le grandi ribalte, solite piccole ribalte della nuova musica, che sogna di essere italiano? Questo ero io negli anni settanta, quando componevo, suonavo, affascinavo, e meditavo sulla strada che portava in cima a una immaginaria montagna di dorati gnocchi italiani. L’Italia, con il suo maledetto Permesso di Soggiorno, la sua regola generale di vivere con grazia fuori dalla legge, e il suo benedetto amore per lo straniero privilegiato (occidentale) qualsiasi cosa facesse o volesse, mi ha reso un italiano per adozione de facto – una condizione che (malgrado il mio terribile accento) abbiamo tutti, loro e io, accettato fino a oggi. Anche se uno straniero non può, mai, diventare veramente italiano, per quanto tu ci arrivi vicino non entri mai dentro il sancta sanctorum. E quindi per quanta ambiguità ci sia nella mia identità culturale, alla fine la verità è nel mio Permesso di Soggiorno piegato dentro il mio passaporto americano: sono l’uno e l’altro.
Fatti personali: A 64 anni mi sono sposato. Susan Levenstein, medico, scrittrice e musicista, è diventata mia moglie, ponendo fine al mio stato di scapolo permanente e cambiando la mia vita, punto e basta! Da allora in poi non sono stato devoto solo alla musica ma anche, estaticamente, a un’altra persona, che è uscita dalle pagine dell’ultimo Beethoven e si è buttata a capofitto nella sconcertante giungla della musica contemporanea; le sue critiche basate sulla penetrazione di ascolto e sguardo sono diventate le nuove guide della mia pratica musicale e il mio ponte www. con il mondo. Il nostro matrimonio ha rischiato di non essere celebrato affatto quando i funzionari italiani hanno scoperto che il mio nome era scritto sbagliato sul mio Permesso e che il comune di New York aveva rilasciato a Susan un tipo sbagliato di certificato di nascita – vista l’insistenza dello Stato italiano che voleva cogliere l’occasione per correggere tutti i propri passati errori ortografici e le indicazioni che aveva sbagliato sui nostri documenti. Ma alla fine siamo riusciti a farci leggere le leggi matrimoniali, a farci tirare il riso, e a organizzare un concerto celebrativo alla galleria d’arte di un amico, e a dare una festa alla villetta Pallenberg a Poggidoro (dove 15 anni prima avevo composto Crystal Psalms seduto in una tenda) completa di uno scatenato duo zingaro di contrabbasso e fisarmonica – una festa che finì quasi in rissa perché due dei giovani ospiti furono sorpresi ad amoreggiare nella camera del bambino – un’inattesa baraonda in stile Cinecittà che ha segnato per noi l’inizio di un notevole periodo di impagabile unità.
Ho volutamente lasciato fuori la pasta e Musica Elettronica Viva salvo qualche citazione di passaggio – riempiono la mia vita di ogni giorno, della seconda ho già parlato e scritto a lungo, la prima è ormai una seconda natura.
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Chi sono queste anime misteriose, italiane e non, che ho incontrato in Italia sin dai miei primi giorni qui – profeti, mistici, sognatori, poeti, tipi bizzarri, artisti, ciarlatani, falliti, entusiasti reinventori dell’acqua calda, gente straordinaria che mi ha mostrato illimitate conoscenze e amore per la vita? Mi hanno lasciato tutti con il loro pezzo decisivo dell’oceanico puzzle che qualche volta ho cercato di completare. Nello scontro tra le nostre due distinte culture l’Italia e io ci siamo stretti sempre di più in un patto finale e irreversibile di amoroso equivoco. Con le scuse a coloro i cui nomi mi sono sfuggiti:
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1 Sono arrivato a volte alla stessa conclusione di Franco e per quel che riguarda la Seconda Scuola di Vienna e la sua atonale conquista della composizione alla fine del XX secolo abbiamo chiare prove della sua continua lotta per sopravvivere fino al giorno d’oggi. Che ci sia “musica” da scrivere nella tradizione del XIX e buona parte del XX secolo non è più in dubbio; gli esseri umani per qualche inesplicabile motivo hanno bisogno di musica per sopravvivere e secondo me continueranno a farla, concettualizzarla, scriverla, improvvisarla e infilarla nei microchip fino alla fine del tempo. Non tutti i compositori devono scrivere tutta la vita, guardate Rossini che ha smesso di comporre per dedicarsi alla cucina!
Da Daniela Tortora, (a cura di), Alvin Curran: Live in Roma (Milan: Die Schachtel, 2010), 202-221
Traduzione Keri Neff